Ciò che riconduce su un piano di analisi unitario le tensioni crescenti in Europa dell’Est e nell’Indo-Pacifico, è una tendenza alla ridefinizione di quello che Carl Schmitt definì l’equilibrio tra la terra e il mare, ossia tra potenze marittime e potenze terrestri. Oggi, questo equilibrio vede contrapporsi sistemi democratici a forme di Stato e di governo strutturate su principi differenti. L’analisi di Emilio Minniti, docente a contratto Università degli Studi Internazionali di Roma (Unint)
L’attuale pericolosa escalation tra Russia e Ucraina sta bruscamente inducendo l’Occidente, con in testa gli Stati Uniti, a riscoprire la centralità geopolitica di quell’area che Halford Mackinder ha definito come “il perno geografico della storia”, ossia l’Heartland, il “Cuore della terra”. Benché le teorie del fondatore della geopolitica in relazione “Geographical Pivot” non siano mai state realmente accantonate dagli strateghi del Pentagono, l’esigenza di contenere l’espansione cinese e la necessità di garantire la libertà di navigazione nel quadrante più rilevante dal punto di vista dell’economia mondiale, hanno indotto gli Usa, sotto la prima presidenza Obama, ad affermare la dottrina del “Pivot to Asia”. Con la nascita del QUAD, alleanza strategica informale tra Usa, India, Giappone e Australia, e con la successiva costituzione di AUKUS, partenariato strategico-militare per la sicurezza nell’Indo-Pacifico tra Usa, Gran Bretagna e Australia, gli Stati Uniti hanno eletto l’Indo-Pacifico a loro principale teatro di impegno diretto. In questa chiave, il ritiro dall’Afganistan e il progressivo disimpegno dal contesto mediorientale hanno assunto una evidente connotazione strategica strutturale.
Analogamente, l’incremento della proiezione politica e militare nell’Indo-Pacifico rappresenta per Londra l’asse principale della cosiddetta “Global Britain”, la dottrina che definisce gli obbiettivi della politica estera britannica nel post brexit. Su una medesima falsariga si è registrato un incremento della presenza francese e tedesca nell’area, entrambe rispondenti ad indirizzi strategici codificati formalmente, mentre nell’aprile dello scorso anno il Consiglio dell’Unione europea ha approvato delle linee strategiche orientate a rafforzare la presenza politica, economica e militare dell’Unione, in un quadrante che genera il 62% percento del Pil mondiale e che contribuisce per i due terzi al tasso di crescita dell’economia globale.
Da tale dinamica esula in parte il nostro Paese, in quanto l’Italia non ha inviato alcuna forza navale di presidio a tutela della libertà di navigazione, né si è dotata di autonome linee strategiche ufficiali relative a quel contesto geopolitico. C’è da considerare, tuttavia, la vigenza del controverso Memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative del 2019, nonché il recente e importante contratto tra Fincantieri e il ministero della Difesa Indonesiano in merito alla fornitura di otto fregate, che inaugura una partnership rilevante nell’area.
La minaccia russa di invasione dell’Ucraina, dunque, riporta l’attenzione dell’Occidente sul fronte dell’Europa dell’est, attribuendo una nuova urgenza ed un nuovo significato al dibattito sulla Nato, caratterizzato in questi anni da impulsi all’allargamento, suggestioni “global” e tentativi maldestri di certificarne il superamento o l’inattualità. Tuttavia, sebbene la questione ucraina e la crisi energetica che sta investendo l’Unione europea possano rimettere in discussione alcune dottrine strategiche orientate ad individuare nell’Indo-Pacifico il nuovo “baricentro” delle dinamiche internazionali, appare possibile – e certamente utile – sottrarsi ad una visione esclusivamente dicotomica della questione.
Infatti, ciò che riconduce su un piano di analisi unitario le tensioni crescenti in Europa dell’Est e nell’Indo-Pacifico, è una tendenza alla ridefinizione, dopo la lunga fase del post guerra fredda, di quello che Carl Schmitt definì l’equilibrio tra la terra e il mare, ossia tra potenze marittime e potenze terrestri. Oggi, questo equilibrio vede contrapporsi sistemi democratici a forme di Stato e di governo strutturate su principi differenti, sostanziandosi dunque di un contenuto che si rinnova rispetto alle epoche precedenti ma che mantiene inalterato il suo carattere “esistenziale”.
Una tale chiave interpretativa, se da una lato si origina da valutazioni profondamente legate all’ordinamento spaziale e all’elemento in esso prevalente, dall’altro consente una lettura in grado di prescindere da facili e superficiali contrapposizioni tra quadranti e crisi geopolitiche differenti.
La capacità di assumere una tale prospettiva di analisi appare di significativa importanza nell’ambito del dibattito interno alla Nato circa il proprio futuro, nonché nel contesto di una più ampia elaborazione interna all’Occidente globalmente inteso.