Skip to main content

Da Kiev a Taiwan. Gli occhi di Biden sull’Indo-Pacifico

Di Matteo Mazziotti Di Celso e Orsetta Maria Fasolo

Non solo Ucraina. Gli Stati Uniti di Joe Biden proseguono sulla strada strategica tracciata dall’amministrazione Trump: la vera, imminente sfida è l’Asia e il campo da gioco l’Indo-Pacifico. Ecco le mosse per frenare la Cina. L’analisi di Matteo Mazziotti Di Celso e Orsetta Maria Fasolo (Geopolitica.info)

Nelle scorse settimane, lo schieramento di truppe russe sul confine ucraino è continuato a crescere, e con esso il rischio di un’aggressione armata di Mosca a danno di Kiev. Il presidente Biden ha autorizzato l’invio di qualche migliaio di truppe nell’Europa dell’Est e ha incrementato le forniture di materiale militare a favore delle forze ucraine. Tuttavia, l’inquilino della Casa Bianca è stato molto chiaro riguardo quella che sarebbe la risposta americana in caso di attacco russo: Washington non invierebbe i suoi uomini a morire per Kiev. Piuttosto, egli si limiterebbe a elargire dure sanzioni nei confronti del Cremlino. Nei calcoli strategici americani, la minaccia russa si pone al di sotto di quella cinese. I vertici militari statunitensi hanno da tempo orientato l’apparato militare americano verso un ipotetico conflitto con la Cina e hanno avviato diversi programmi di ammodernamento e di rinnovamento delle forze armate per adattarle a un confronto militare nell’Indo-Pacifico.

Una difesa consacrata alla minaccia cinese

Durante il lungo e complesso percorso che si è concluso con l’approvazione finale del budget per la difesa, il National Defense Authorization Act, i rappresentanti e i senatori del Congresso statunitense, così come i membri del governo in carica, hanno discusso con enfasi sulla giusta quantità di risorse da allocare a favore del Pentagono. Eppure, nessuno dei partecipanti alla discussione ha mai messo in dubbio quello che, a partire almeno dal 2018, anno in cui Trump ha reso nota la National Defense Strategy, rappresenta ormai la priorità fondamentale in base alla quale gli Stati Uniti scelgono come e quanto spendere per la Difesa: la minaccia cinese.

Lloyd Austin ha chiarito, fin dal primo giorno in cui ha assunto l’incarico di Segretario alla Difesa, che la priorità del suo mandato sarebbe stata indubbiamente la minaccia rappresentata dalla Cina. In occasione della sua prima visita al Pentagono, Biden ha dato ordini agli alti vertici americani di rivedere la politica militare in funzione anticinese e di fornire alla presidenza delle raccomandazioni per potenziare la politica di contrasto del Pentagono nei confronti di Pechino. Annunciando la creazione di quella che ha poi preso il nome di China Task Force, Biden ha definito chiaramente che la priorità del Pentagono per i prossimi anni sarebbe stata la preparazione a un eventuale conflitto con la Cina, in linea con quanto fatto dall’amministrazione Trump negli ultimi anni di mandato.

La consacrazione dell’apparato militare americano al contrasto della minaccia cinese è emersa in maniera evidente durante il processo di approvazione del budget per il 2022. Il Segretario Austin ha continuato a ribadire con costanza la centralità della Cina durante tutta la fase dell’iter parlamentare, sia nelle Commissioni che in Congresso. L’amministrazione guidata da Biden ha pianificato la spesa militare per l’anno appena iniziato in ottica prevalentemente anticinese. «Per difendere la nazione, il Dipartimento della Difesa (…) vuole fornire gli investimenti necessari che gli permettano di mettere la Cina al primo posto sulla scala delle priorità, dato che essa rappresenta la minaccia numero uno», aveva dichiarato il Vicesegretario alla Difesa Kathleen Hicks durante la presentazione del budget al Congresso. Gli investimenti militari americani per il 2022 «hanno come priorità la Cina, che sta divenendo sempre più competitiva, nella regione dell’Indo-Pacifico e nel mondo». E in effetti, nonostante quello proposto da Biden al Congresso fosse un budget “piatto”, ovvero in linea con quello dell’anno precedente e senza sostanziali aumenti di spesa, esso era decisamente consacrato al contrasto della minaccia cinese.

Nonostante il focus sulla Cina godesse di un consenso bipartisan, essendo saldamente condiviso dal partito Repubblicano e da quello Democratico, moltissimi parlamentari hanno accusato Biden di aver proposto un budget insufficiente a garantire alle forze americane le risorse necessarie per difendere gli Stati Uniti. Nel mese di aprile, durante le discussioni parlamentari sul budget, il Senatore Inhofe, leader repubblicano nella Commissione Forze Armate del Senato, si è schierato duramente contro la proposta di Biden, accusandolo di non spendere abbastanza per contrastare una minaccia, quella cinese, «che non è affatto distante, ma che potrebbe realizzarsi di qui al 2030, o al 2035».

L’opinione del senatore Inhofe era in realtà ampiamente condivisa, e non soltanto dal partito Repubblicano. Il Congresso, in effetti, ha ritenuto la proposta di Biden non sufficiente a garantire alle forze armate americane i fondi necessari per sviluppare le capacità che gli consentiranno di prevalere sulla Cina. Così, le Commissioni Difesa del Senato e della Camera hanno proposto alle aule un budget notevolmente “lievitato” rispetto a quello presentato dalla Casa Bianca, e non di poco, dato che la proposta di budget che è arrivata al Congresso risultava superiore a quella iniziale di una cifra pari al 5% del totale.

Il piano di spesa finale approvato dal Congresso e firmato da Biden presenta un aumento di circa 24 miliardi rispetto a quello presentato dal presidente all’inizio dello scorso anno. Gran parte della cifra che è stata aggiunta al piano iniziale è rivolta a incrementare le capacità militari del Pentagono nel confronto con la Cina. Il Congresso ha voluto assegnare due miliardi in più alla Pacific Deterrence Initiative, l’iniziativa quinquennale lanciata nel 2020 dalla presidenza Trump e mirata a incrementare ed efficientare gli investimenti militari americani nell’area dell’Indo Pacifico. Il principale beneficiario di questi 24 miliardi è stata la US Navy, a cui sono stati assegnati i fondi per l’acquisto di nuovi cacciatorpediniere classe Burke, una nave da assalto anfibio e un sottomarino classe Virginia.

L’inversione del trend nella spesa militare

Il National Defense Authorization Act proposto da Biden conferma un trend in corso già da qualche anno, ovvero un aumento delle spese a favore della componente navale e area, a scapito di quella terrestre.

Negli scorsi vent’anni, durante i quali l’attenzione del Pentagono è stata rivolta soprattutto ai conflitti mediorientali, dove la componente terrestre giocava un ruolo centrale rispetto alle altre, l’US Army si è vista assegnare delle fette molto sostanziose del budget per la difesa. Secondo il Mitchell Insitute for Aerospace Studies, tra il 1990 e il 2003, l’esercito americano ha ricevuto, in media, il 34% delle risorse messe a disposizione del Pentagono per la Difesa, contro il 31% dell’US Navy – questa tiene conto anche delle spese per il Corpo dei Marines. Tra il 2004 e il 2013, tuttavia, la percentuale riservata all’US Army è notevolmente aumentata, fino a raggiungere il 34% del totale, mentre l’US Navy si è fermata al 26% – una cifra che sarebbe scesa in maniera molto più decisa se non fosse stato per l’US Marine Corps, che in Afghanistan e in Iraq ha giocato un ruolo importante.

Negli ultimi 5-6 anni, con la fine delle operazioni di combattimento in Afghanistan, il progressivo ritiro delle truppe americane dal Medio Oriente e il definitivo riconoscimento della minaccia cinese come priorità assoluta della politica estera e di sicurezza americana, le cose sono cominciate a cambiare. Se nel 2013 l’US Navy e l’US Air Force, insieme, contavano il 48% della spesa, nel 2021 essa è salita a 52%, mentre la parte riservata all’US Army è scesa dal 35% al 32%.

La riduzione del budget dell’US Army in favore delle componenti navali e terrestri segnala in maniera plastica il cambiamento di priorità del Pentagono in favore di un maggiore focus verso un ipotetico conflitto nel Pacifico. Il teatro in cui si verificherebbe l’ipotetico conflitto con la Cina privilegia l’uso delle forze aeree e navali, quelle su cui gli Stati Uniti, negli ultimi vent’anni, hanno investito meno. A partire da Trump, il trend a cui si era assistito a partire dagli anni 2000 si è invertito. I vertici della difesa americani stanno ora dando priorità alle forze navali e all’US Air Force, investendo in quei programmi che consentiranno a queste forze di prevalere in un conflitto contro l’avversario cinese.

Lo scenario che immaginano i militari americani

Anni di conflitti insurrezionali in Medio Oriente hanno distratto l’attenzione dell’apparato militare americano verso un tipo di combattimento, quello contro insurrezionale, che li ha portati a trascurare le componenti che in quella guerra giocavano un ruolo minore, soprattutto quella navale. Il Pentagono ha investito molto in equipaggiamenti adatti a un contesto contro insurrezionale: veicoli leggeri, elicotteri da trasporto, sistemi di ricognizione a corto raggio. Ora Washington sta correndo ai ripari, a cominciare dalle forze navali.

Sia la US Navy che lo US Marine Corps sono alle prese con dei grandi cambiamenti necessari a adattare la loro dottrina in funzione di un combattimento nel teatro del Pacifico. Il principale criterio in base al quale si stanno ristrutturando queste forze armate è quello delle operazioni nel contesto delle bolle di Anti-Accesso e Interdizione d’Area (Anti-Access/Area-Denial, A2/AD).

Con questo termine ci si riferisce sostanzialmente a delle aree in cui il nemico ha schierato assetti – sistemi radar, sistemi di ricognizione e sorveglianza, batterie di difesa antiaerea, sistemi di guerra elettronica – che gli permettono di intercettare e di colpire velocemente chiunque vi faccia ingresso. In questo contesto, il problema principale che le forze americane si trovano ad affrontare è quello dell’erosione del Sea Control e dell’Air Control. Al contrario di quanto avveniva in Iraq e in Afghanistan, qui i militari americani non potrebbero utilizzare senza alcun disturbo il dominio aereo e marittimo, ma dovrebbero fare i conti con un avversario, quello cinese, che contesta la presenza nemica in queste dimensioni.

Per operare in questo scenario, i vertici militari americani hanno elaborato la teoria delle Operazioni Marittime Distribuite (Distributed Maritime Operations – DMO), definite come “insieme di azioni interdipendenti e coordinate da parte di unità disperse geograficamente e distribuite spazialmente che puntano a togliere l’iniziativa all’avversario e metterlo nelle condizioni di non poter gestire l’escalation alle condizioni di partenza”. Le unità americane che operano nell’area devono riuscire a “aprire dei buchi” nelle bolle nemiche e creare delle aree di contro-interdizione. Per farlo, occorre, per l’appunto, operare in maniera distribuita, cioè dispersa, e operare da lontano, con armamento stand off. Questo tipo di operazioni impone alle forze americane una fortissima integrazione tra la Marina e le altre forze armate, soprattutto US Navy e US Air Force.

Per il Corpo dei Marines, questo significa: operare in gruppi piccoli e autonomi; disporre di una grande capacità di connessione e collegamento tra le pedine; disporre di forze leggere e veloci. Per la US Navy significa: avere possibilità di disporre di unità navali più letali e resilienti, ma anche polivalenti, capaci di agire da sole o in piccoli nuclei; disponibilità di efficaci armamenti stand off, sistemi di autodifesa avanzati e sistemi antinave; disponibilità di una rete tattica di connessione capace di collegare tra loro le pedine sul campo. Ampio spazio viene dedicato ai battelli senza pilota – piccoli e difficili da individuare – e alla componente sottomarina, anch’essa difficile da individuare e allo stesso tempo capace di colpire da lunghe distanze.

Anche per l’aviazione il contesto del Pacifico impone un adattamento, anche se meno radicale rispetto a quello che sta vivendo, ad esempio, il Corpo dei Marines, il quale ha avviato una vera e propria rivoluzione della dottrina e quindi degli organici e degli equipaggiamenti – ad esempio, ha iniziato a smantellare la componente corazzata. Per l’US Air Force, muovere in un contesto caratterizzato dalla presenza di bolle A2/AD, significa: disporre di velivoli dotati di notevoli capacità stealth, per evitare di farsi individuare; disporre di velivoli capaci di fungere da vero e proprio centro di raccolta, smistamento e condivisione di dati, grazie alla loro capacità di visione dall’alto; capacità di saper operare anche con sistemi non pilotati di dimensioni più o meno ridotte – i cosiddetti gregari, particolarmente efficaci in uno spazio aereo contestato.

Pare evidente, dunque, che in uno scenario del genere, l’US Army giocherebbe necessariamente un ruolo minore. Anche se i vertici militari americano ritengono che l’esercito statunitense potrebbe avere un ruolo decisivo nella seconda fase di un ipotetico conflitto con la Cina per Taiwan, dove esso potrebbe essere impiegato per difendere il territorio attaccato dalle forze di Pechino e/o riprendere il controllo del terreno perduto, è probabile che negli anni a venire le spese militari americane continueranno a seguire il trend intrapreso da Trump, continuando a favorire le forze aeree e navali, a scapito di quelle terrestri.

Le forze americane stanno vivendo un processo di grande cambiamento. Con il termine delle operazioni in Medio Oriente, il Pentagono ha iniziato a investire ingenti risorse in grandi programmi navali e aerei, a scapito della componente terrestre. Le scelte del Dipartimento della Difesa riflettono le priorità assegnate dalla presidenza Trump e da quella Biden alla politica estera americana, che oggi vede nella Cina, più che nella Russia, il principale avversario e la maggiore minaccia per l’ordine liberale a guida americana. Tornare a schierare decine di migliaia di uomini in Europa significherebbe riprendere a investire nelle forze terrestri, trascurando ancora una volta quelle aeree e navali, ovvero ciò che più serve nel Pacifico. È dunque improbabile che Washington voglia distrarre il Pentagono dalla preparazione di un conflitto con quello che rimane l’avversario principale degli Stati Uniti: la Repubblica Popolare Cinese.


×

Iscriviti alla newsletter