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Il Dma, una creatura (troppo) tentacolare. L’analisi di Colangelo (Luiss)

Il professore Giuseppe Colangelo sviscera il Digital Markets Act e ne evidenzia le criticità. Washington non dovrebbe preoccuparsi di chi sarà considerato un gatekeeper, ma dell’applicazione di questa legge multidisciplinare e dell’“effetto Bruxelles”

Il Digital Markets Act, che assieme al complementare Digital Services Act promette una rivoluzione normativa per l’economia digitale, è sul tavolo della discussione trilaterale tra Commissione, Parlamento e Consiglio europei. La prima li ha proposti, il secondo li ha approvati. Ora la Francia di Emmanuel Macron, che guida il Consiglio fino a luglio, è intenzionata a intestarsi il via libera definitivo. Intanto, dagli Stati Uniti, una nota indirizzata a Bruxelles – e visionata da Formiche.net – riassume le obiezioni sul testo. 

Se il Dsa è incardinato su principi di privacy e protezione della vita online, il Dma si focalizza soprattutto sui gatekeeper, le aziende dominanti in grado di influenzare i mercati digitali. Che sono praticamente tutte americane. Si pensi alle big 5: Alphabet (parent di Google), Amazon, Apple, Meta (già Facebook), Microsoft. E a Washington sono impensieriti soprattutto perché le definizioni di gatekeeper nel testo finale del Dma potrebbero imbrigliare solamente i loro campioni.

Ma per alcuni queste preoccupazioni sono mal riposte, o meglio, mal indirizzate. Formiche.net ha raggiunto Giuseppe Colangelo, professore di diritto dell’economia all’Università della Basilicata ed alla Luiss ed esperto di politiche della concorrenza. Che avverte gli States: al netto della definizione finale, le soglie di designazione sono “particolarmente inclusive” e finiranno per catturare un numero significativo di imprese, ben al di là delle Big Tech statunitensi. Al contrario dell’equivalente britannico che, invece, si appresta a definire un codice di condotta ritagliato su misura per le ben note piattaforme.

Inoltre, essendo sostanzialmente focalizzato sulla mera dimensione delle imprese, il Dma non contiene alcun limite di applicazione di carattere qualitativo. In altre parole, non è circoscritto alle piattaforme che ambiscono alla costruzione di un ecosistema e può trovare applicazione anche per operatori più lineari, come l’olandese Booking. Senza contare, infine, la possibilità per la Commissione di individuare in futuro nuovi gatekeepers, nonché di designare anche operatori che, pur non rivestendo quello status attualmente, sono destinati ad arrivarci.

Per tutte queste ragioni, prosegue Colangelo, le preoccupazioni d’oltreoceano andrebbero più correttamente indirizzate verso un intervento regolatorio che si sovrappone (senza sostituirle) alle regole antitrust già esistenti, cosa che accentua la frammentazione regolamentare anziché favorire una armonizzazione delle regole. Dopo l’approvazione del Dma, la medesima condotta tenuta dal medesimo operatore potrà essere valutata sia dalla Commissione sulla base delle nuove regole, sia dalle autorità nazionali alla luce delle vecchie e nuove regole antitrust, aumentando di conseguenza il rischio di duplicazione di indagini e condanne, nonché di decisioni potenzialmente contrastanti.

Si delinea, dunque, una coesistenza potenzialmente contraddittoria, con il Dma implementato a livello europeo e applicato da un’autorità centrale – la Commissione stessa: e quale braccio, competizione (DG Comp) o digitale (DG Connect)? – assieme alle regole antitrust europee e nazionali applicate dalle autorità nazionali. Una problematica riscontrata anche dalla controparte americana e già sollevata in Italia da Roberto Rustichelli, presidente dell’Autorità antitrust nostrana.

Si rischia, dunque, una confusione regolamentare che non riguarda solo il diritto della concorrenza, visto che potenzialmente il Dma incide anche negli ambiti regolamentari delle autorità garanti delle comunicazioni e della privacy. Senza contare, prosegue il professore, che il Dma non differenzia tra modelli di business e applica gli stessi limiti a tutti i gatekeeper, vietando così una lunga serie di condotte senza tener conto che potrebbero avere effetti diversi a seconda del modello di business adottato dalla piattaforma in questione (un app store piuttosto che un social network o un marketplace). 

Ciò che sorprende, conclude Colangelo, è che l’amministrazione statunitense non mostri altrettanta preoccupazione per i progetti di legge in discussione presso il Congresso americano, i quali, nel complesso, si pongono in linea con il Dma europeo. É comprensibile la frustrazione statunitense dinanzi al rischio di subire l’“effetto Brussels” e apparire come un follower su tematiche di tale rilievo. Anziché allinearsi alla legislazione europea, però, ci si sarebbe aspettati da parte statunitense una battaglia culturale contro l’eccesso di regolamentazione dei mercati dell’innovazione, al pari di quanto avvenuto nei confronti del Gdpr in tema di protezione dei dati.


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