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Il Festival di Sanremo, Achille Lauro e il confutatis maledictis

Di Vittorio Robiati Bendaud

Che si sia credenti o non credenti, osservanti o trasgressori, il mancato rispetto per la tradizione biblica, ebraica e cristiana, esibito da Lauro non è altro che una forma soft di cancel culture, la migliore alleata di chi abbatte i Buddha o incendia chiese. L’intervento di Vittorio Robiati Bendaud, saggista e coordinatore del tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia

Devo premettere che sono ben strano animale: non ho mai seguito nessuna edizione del Festival di Sanremo e il mio distaccato interesse è sempre stato per lo più di natura antropologica. Quanto alla musica, amo gli irlandesi – The Dubliners, The Chieftains o The High Kings -, Edith Piaf, Amalia Rodrigues, l’opera, la polifonia, la musica sacra barocca e, da sempre, il gregoriano. E, circa il Festival, il problema, poi, differentemente da certe miserrime polemiche che l’hanno preceduto, non è che vi possano essere persone gay o trans a condurlo o a intervenirvi.

Chi non vorrebbe fare due chiacchiere con Ann Madrigal (personaggio chiave de I racconti di S. Francisco, scritti da quel grande scrittore contemporaneo che è Armistead Maupin)? E chi non solidarizzerebbe con Ann o non le riconoscerebbe la sua inalienabile dignità umana, che si condividano o meno le sue sofferte vicende e scelte?

I problemi sono altri. E si dovrebbe partire da lontano, ossia da quando artisti pop, più o meno bravi, in un contesto modaiolo e di divertimento, eminentemente commerciale (fatto determinante), sono via via assurti a esperti di morale e di politica, a testimonial (e rattrista assai pensare che “martire”, nella sua origine greca, voglia dire “testimone”!), passando indebitamente e rovinosamente dall’ipse psallit (così cantò) all’ipse dixit (così si pronunciò, di aristotelica memoria), forgiando il cosiddetto, penoso, mainstream.

Vi è poi ora Achille Lauro, il cui nome d’arte è in sé volutamente angoscioso e inquietante, con rimandi a vicende più che tragiche per la storia italiana ed ebraica contemporanea. E, infine, vi è il fattaccio del battesimo da costui mimato al Festival.

Per decifrare di che si tratti occorre tornare a Charlie Hebdo. Io non sono mai stato Charlie e ho sempre trovato ripugnante la satira estrema perseguita ossessivamente dalla rivista francese: basti pensare alle oscene copertine per Rigopiano o per il sisma del 2016 che sconvolse Marche, Umbria e Lazio o, ancora, alle molte, sgradevolissime derisioni di cristianesimo, ebraismo e islàm. Ciononostante, ritengo che Charlie abbia tutto il diritto di esistere e di fare quanto fa, in libertà e sicurezza, e assolutamente nulla può giustificare o ridimensionare l’orrenda gravità dell’attentato islamico (motivo per cui ancora ritengo poco felici le parole che al riguardo ebbe anni fa papa Francesco).

Taluni devoti, trasversalmente, da allora (e da ieri per quanto riguarda Lauro) hanno invocato norme contro la “blasfemia”. Un’ulteriore, pericolosa e ambigua legge bavaglio, in un Occidente sempre più assediato da autocensure, peraltro invocata, più o meno sottotraccia, anche da gruppi islamici radicali, il che dovrebbe essere già ragione più che sufficiente per rifuggire da tale perniciosa tentazione illiberale.

Si potrebbe considerare, e con indubbie e rilevanti ragioni, che Charlie è una rivista privata, mentre il canale del Festival è televisione di Stato, per cui tutti, volenti o nolenti, paghiamo il canone. Ma vi è di più, che è poi il vero discrimine. Charlie è interprete di una satira politica-religiosa estrema (per me non recepibile), tesa a un’aspra polemica politico-culturale; il Festival, con il battesimo mimato, irride il cristianesimo per fare notizia e attrarre reazioni contrarie, che aumentino il chiasso e dunque la visibilità e l’audience. Non è cioè un’operazione satirica, per quanto detestabile, ma un mero prodotto commerciale, “liquido”, cosa ben più squallida e insidiosa.
Ciò premesso, restano alcuni dati macroscopici circa il “battesimo del Lauro” che non possiamo tacere o far finta di non vedere: la vigliaccheria di certa, presunta, “cultura” e, ancor più, la distruzione di un simbolico.

Come molti dileggiatori contemporanei del cristianesimo (tanto sofisticati che gretti e grossolani), questi presunti trasgressori (omaggianti il più trito, confortevole e redditizio mainstream) si guardano bene dal toccare l’islam, sia perché ne ignorano i minimi riferimenti simbolici e culturali (e, infatti, nel caso, in proposito si assiste solo a rappresentazioni volgari e ignoranti, di solito avanzate da destre xenofobe o da libertari poco sul pezzo) sia perché, ancor più e anzitutto, ne hanno paura.

Questi liberal, autotravestitisi da eretici o trasgressori, che non di rado si nobilitano parlando di inclusione, buone pratiche e pluralismo, da un lato esibiscono negazione di riverenza e finanche odio di sé per quanto concerne il cristianesimo, dall’altro tradiscono paura e soggezione verso l’islam politico. Si tratta di viltà. E, sia ben chiaro, in ciò i musulmani (non parlo ovviamente dell’islam politico, dei fanatici e dei terroristi, che sono anzitutto degli idolatri) non c’entrano nulla.

Anzi, differentemente da questi finti prodi dei nostri liberal tremebondi, hanno indubbi e molti meriti: pregano più volte ogni giorno, temono e amano Dio, cercano di vivere dimorando alla Sua presenza, digiunano e, non da ultimo, sperimentano un sano e condivisibile disagio rispetto a queste pagliacciate e farneticazioni, televisive o meno. Bene ha fatto, dunque, l’Osservatore Romano a sfottere questi “trasgressivi” da Festival con intelligenza e stile.

Vi è, infine, l’ultimo punto, il più dolente, quello afferente alla distruzione del simbolico. Lauro, non troppo diversamente dalla serie Midnight Mass di Netflix e molte altre consimili, impiega vestigia del simbolico biblico o specificatamente cristiano; ferisce quel simbolico perché non vi usa rispetto né gli interessa (o conviene) usarlo; lo banalizza, erodendolo, allo scopo di far sensazione – ossia, infine, per lucro -; spera nella pubblicità gratuita della critica; si trincera dietro la libertà d’espressione o di ricerca artistica. La strategia è chiara.

La domanda è perché tale simbolico sia divenuto così avversato, così insignificante, così impiegabile a detrimento di se stesso e della comunità religiose e culturali che in esso si identificano. Come scriveva nel 2017 uno dei più interessanti e lucidi intellettuali contemporanei, Douglas Murray, un pensatore omosessuale agnostico, autore recentemente del fondamentale La pazzia delle folle. Gender, razza e identità, viviamo in mezzo alle rovine della civiltà ebraica e cristiana e non ne comprendiamo più il senso: la cattedrale di Chartres esiste ancora oggi, ma non sappiamo più che cosa significhi.

Che si sia credenti – indipendentemente dalla confessione – o non credenti, osservanti o trasgressori, il mancato rispetto per la tradizione biblica, ebraica e cristiana, esibito da Lauro non è altro che una forma soft di cancel culture, la migliore alleata di chi abbatte i Buddha nell’Asia centrale o di chi incendia decine di chiese nel cuore della Francia. E, se abbatte questa radice che lo porta – non riducibile in alcun modo a un melenso e stucchevole ‘vogliamoci bene’, giustamente privo di qualsivoglia interesse -, cosa mai potrà restare dell’Occidente?

Dal mio punto di vista, checché da troppi ciò non sia ancora debitamente compreso, il dialogo ebraico-cristiano, come esperimento culturale, resta la risposta più urgente e valida: al contempo conservatrice (non in senso retrivo, ma conservativo e creativo) e progressista (non nel senso corrotto e deleterio attuale, ma di investimento sul futuro).

Quanto mi piacerebbe che i milioni di persone coinvolte dell’esperimento antropologico del Festival di Sanremo potessero ascoltare e apprezzare, almeno una volta nella vita, l’Adoro Te devote, inno straordinario, attribuito con ogni probabilità a Tommaso d’Aquino, in cui la teologia si fa poesia; in cui le verità teologiche, come nell’inno alla Vergine di Dante, portano la lingua al massimo della tensione sostenibile; dove la musica, nel suo nitore essenziale, deve non essere troppo inadeguata rispetto al sublime indicibile che deve accompagnare e trasporre.

Per apprezzarlo non è affatto necessario credere oppure aderire al culto cattolico (e così vale per molti testi liturgici ebraici o per certe architetture religiose islamiche), ma “basta” essere persone che cercano e apprezzano il bello, l’eleganza, il senso e che da questi sono sorpresi. Ridicolizza il battesimo e, presto o tardi, ridicolizzerai e devasterai Giotto, Duccio da Boninsegna, Caravaggio, Bernini, Dante, Mozart e Vivaldi, un infinito numero di chiese e sinagoghe, di biblioteche e, non da ultimo, perché no, di persone.

Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo protestante che, pagando con la vita, si oppose a Hitler e che cercò doverosamente e santamente di sopprimerlo, disse che soltanto chi gridava a favore degli ebrei poteva permettersi di intonare il gregoriano. Se questo è assolutamente vero, è altrettanto vero che oggi, per salvare l’Occidente, e con esso la civiltà, occorre salvare il gregoriano (e salvarci da Sanremo).

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