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Perché è necessaria una formazione internazionale per l’intelligence

Di Mario Caligiuri e Antonino Vaccaro

È il momento di cambiare l’approccio culturale alla formazione degli operatori dell’intelligence e più in generale della nostra classe dirigente, approfondendo maggiormente l’innovazione metodologica e tecnologica. L’intervento di Mario Caligiuri, Università della Calabria e presidente Società Italiana di Intelligence e Antonino Vaccaro, Iese Business School, Barcellona

Crediamo che valga la pena provare a sfatare un mito. L’intelligence non riguarda solamente le istituzioni governative, ma qualsiasi organizzazione che abbia bisogno di informazioni attendibili per assumere decisioni ponderate e consapevoli. Non solo le agenzie deputate alla sicurezza nazionale, quindi, ma anche i ministeri, le aziende, le imprese del terzo settore, le organizzazioni non governative, e così via.

L’intelligence è diventata infatti un’attività fondamentale per qualsiasi organizzazione che provi a definire strategie di medio e lungo periodo, che sia interessata a costruire processi decisionali affidabili, che intenda orientarsi con consapevolezza in un contesto politico, sociale, economico e culturale in continuo movimento.

Fare intelligence oggi vuol dire confrontarsi con due elementi rilevanti: complessità e turbolenza. Il mondo di oggi è sempre più complesso e le variabili da tenere in considerazione diventano sempre più complesse da definire e misurare. Purtroppo, o per fortuna, il mondo è anche turbolento, in quanto gli scenari cambiano sempre più rapidamente.

È questa la sfida dell’intelligence: confrontarsi con un mondo sempre più “liquido”, in cui l’unica certezza è che le regole cambiano continuamente e sempre più rapidamente.

Fare intelligence oggi vuol dire saper acquisire, processare e gestire la dismisura delle informazioni, che sono generate e trasmesse nelle interazioni sociali, virtuali, istituzionali, organizzative e così via.

L’intelligence di appena 10 anni fa sembra ormai quasi preistoria. Oggi chi fa intelligence ha bisogno di metodologie e tecnologie sempre più sofisticate che includono domini scientifici assai differenti: l’intelligenza artificiale, la linguistica, la psicologia, la sociologia, l’economia, la criminologia, la genetica, le neuroscienze, la fisica quantistica per arrivare ai confini dei poteri della mente.

La questione si complica ancora di più perché nel panorama internazionale le metodologie e le tecnologie per l’intelligence sono continuamente “spinte” dalla ricerca scientifica, da quella industriale e dalla pratica professionale.
È questa una sfida centrale e sottovalutarla espone a molteplici rischi. Ignorare il continuo progresso metodologico e tecnologico porta non solo all’inefficienza dei nostri apparati di intelligence, governativi e privati, ma soprattutto ci lascia pressoché indifesi a potenziali attacchi esterni.

Il progresso tecnologico e metodologico oggi può ridurre i costi e i tempi dell’intelligence ma soprattutto può aumentare la qualità delle analisi e attivare nuove dimensioni di osservazione, controllo e protezione.

Esiste solo una risposta possibile per preservare il sistema Paese: internazionalizzare la formazione di quadri e dirigenti pubblici e privati.

Da una recente rilevazione del Center for Business in Society dello Iese business school, in collaborazione con la Società Italiana di Intelligence, emerge che meno del 2% dei dirigenti pubblici italiani ha letto nell’ultimo anno almeno un report tecnico in lingua inglese, meno dell’1% è stato in grado di ricordare i nomi di 3 esperti internazionali del proprio settore. L’internazionalizzazione della formazione dovrebbe quindi seguire due canali paralleli.

Il primo, attirare docenti ed esperti stranieri nei nostri corsi di formazione in Italia. Secondo, inviare i nostri quadri e dirigenti per corsi di formazione all’estero. Anche qui le statistiche sono drammatiche. Meno dell’1% dei dirigenti e quadri che abbiamo intervistato hanno svolto un corso di formazione superiore a due settimane all’estero.

Un caso ci sembra particolarmente significativo ed è quello dell’Accademia Militare di West Point, dove i rappresentanti delle Forze Armate italiane sono praticamente assenti. Basta fare una passeggiata nell’accademia militare americana per incontrare cadetti francesi, inglesi, tedeschi, polacchi che trascorrono periodi formativi compresi tra i 6 mesi e i due anni. Non ci sono invece cadetti italiani che seguano almeno un semestre, nonostante il sistema dei crediti formativi sia sostanzialmente lo stesso in tutta Europa.

Come educatori e studiosi di intelligence non possiamo fare a meno di rilevare lo svantaggio competitivo dei nostri cadetti rispetto ai loro colleghi stranieri.

È necessario, pertanto, secondo noi, cambiare l’approccio culturale alla formazione degli operatori dell’intelligence e più in generale della nostra classe dirigente. Potrebbe essere utile, infatti, ridurre gli aspetti della politica istituzionale e dell’organizzazione giuridica e burocratica per approfondire di più l’innovazione metodologica e tecnologica. Più che intenzione, ci sembra una necessità.



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