Venti di distensione sembrano spazzare via le nubi di una guerra nell’Est Europa, almeno temporaneamente, sebbene continui a essere calda la battaglia mediatica combattuta nell’infosfera, finora apparentemente a vantaggio del blocco occidentale e a scapito di quello orientale. L’analisi di Luigi Giungato, Ph.D. St. in Politica, Cultura e Sviluppo, DiSPeS, Unical, ricercatore Società Italiana di Intelligence – SocInt
Nel corso della storia solitamente è abbastanza agevole stabilire chi vince e chi perde in una battaglia e le information war non fanno eccezioni.
Venti di distensione sembrano spazzare via le nubi di una guerra nell’Est Europa, almeno temporaneamente, sebbene continui a essere calda la battaglia mediatica combattuta nell’infosfera, finora apparentemente a vantaggio del blocco occidentale e a scapito di quello orientale. La scelta temporale di sferrare un’eccezionale offensiva ibrida da parte della Nato proprio durante le Olimpiadi invernali di Pechino si è rivelata vincente, a colpi di veementi dichiarazioni ufficiali, presunti leaks da parte dei servizi di intelligence, missioni diplomatiche, reportage giornalistici, iperattività social, schieramenti di truppe, operazioni speciali, accordi economici e militari. Essa ha ottenuto innegabilmente un duplice obiettivo: da una parte quello di distrarre il pubblico occidentale dal gigantesco media event cinese; dall’altra quello di prendere di sorpresa i vertici militari e politici cinesi e russi, distratti, a loro volta, dall’irripetibile appuntamento mediatico-diplomatico Olimpico.
La risolutezza e l’escalation retorica, a volte apparsa quasi ai limiti dell’irresponsabilità, da parte del governo Usa, dei suoi alleati e dei propri media outlets più influenti ha, in effetti, ottenuto il risultato di far guadagnare terreno alla Nato sul campo di battaglia simbolico posto tra i due blocchi, oltre ad agevolare un maggiore dispiegamento di forze occidentali ai confini con la Russia sul campo di battaglia reale.
Le minacce di ritorsioni e di blocchi economici; le insinuazioni su fantomatiche operazioni di intelligence smascherate – le cosiddette ”false flag” -; l’aggressività verbale, prevalentemente dimostrata da parte del presidente Biden e del Segretario generale della Nato Stoltenberg; e, soprattutto, l’impostazione di un plot chiaro e di successo che ha saputo innestarsi su narrazioni profonde, ovvero quello dell’“attesa, da un momento all’altro, dell’invasione russa”, solo per fare degli esempi, hanno, almeno per ora, conquistato innegabilmente il campo di battaglia mediatico, sovrapponendosi alla narrazione di Mosca, prevalentemente basata su una strategia di debunking nei confronti dei media statunitensi e sul tentativo di dimostrazione della “falsità” delle loro affermazioni, orchestrata dalle fonti di informazione ufficiali, schierate sin da subito su posizioni difensive. Perché, per una città assediata, non c’è niente di più inutile che inviare messaggeri per annunciare al mondo la giustezza della propria causa e la denuncia di essere parte lesa.
Tuttavia, la battaglia è solo temporaneamente conclusa ed è molto improbabile che da parte orientale non vi sarà un tentativo di controffensiva. È vero che lo schema narrativo occidentale, alla fine, ha avuto ragione di quello orientale, se non altro sul fronte interno. Tuttavia è pur vero anche che esso si basa su un bluff, quello di una paventata invasione dell’Ucraina da parte russa che, tranne imprevedibili sorprese, non ci sarà, se non successivamente a una conclamata rottura degli accordi di Minsk da parte occidentale. Di conseguenza è uno schema destinato probabilmente ad esaurirsi, esattamente come lo schema narrativo delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein, capace di detenere una validità simbolica solo temporanea, ma totalmente inutile sul medio e lungo periodo. Ed è proprio questo l’elemento di maggiore debolezza strategica che caratterizza tale tipo di approccio.
L’operazione di “false flag” simbolica adottata dal governo Usa, consistente nel costringere l’avversario a difendersi dall’accusa di una invasione che, effettivamente, non era intenzionato a fare, anche grazie alla propria capacità di propagazione nell’infosfera, per quanto efficace ad ottenere un’egemonia nell’opinione pubblica sul breve periodo, nel medio periodo rischia di essere controproducente, poiché l’antagonista, questa volta, non è il governo di Saddam Hussein o il vertice di un qualunque gruppo terrorista islamico.
Il governo russo ha risorse di soft power ingenti e difficilmente esauribili, costruite in anni di confronto asimmetrico e di sottile penetrazione delle galassie social occidentali, combatte guerre ibride da anni su più fronti, con diversi mezzi e differenti tecniche e ha costruito un’efficace, strutturale e solida coordinazione tra i propri vertici politico-militari, i propri media outlets e i propri narratori che, in passato, hanno dato prova di grande efficienza e adattabilità. Pur essendo probabilmente per la prima volta negli anni più recenti costretti sulla difensiva, è presumibile che tenteranno di rovesciare molto presto la narrazione predominante e riprendere l’iniziativa, a maggior ragione ritenendo di avere la verità fattuale dalla propria parte.
Perché, se è vero che la Nato ha condotto le proprie truppe ai confini della Russia grazie ad una guerra di propaganda che ha imposto la narrativa della difesa comune dinanzi al pericolo incombente – e quindi divenuto “reale” – di un’aggressione russa, è pur vero che è essa stessa, tecnicamente, ad avere condotto le proprie truppe e ad avere inviato le proprie armi in territori stranieri, attorno ad una nazione antagonista.
Resteremo ad attendere i prossimi sviluppi, con la speranza che la guerra simbolica, fatta eccezione per i morti e per le popolazioni del Donbass, possa esaurirsi o continuare per lo meno a rimanere tale. Nel frattempo, l’Europa resta schiacciata nella contesa. Di tutte le proposte fatte, in effetti quella di Emmanuel Macron, di intraprendere una riprogettazione generale della difesa europea, includendo anche in un ruolo chiave proprio la Russia, finora è apparsa la più innovativa e alternativa alla presente situazione di stallo che prospetta un estenuante confronto perpetuo sulla linea rossa di una terza guerra mondiale combattuta sul vecchio continente.
Eppure tale narrativa, capace di porsi come una via d’uscita dalla polarizzazione dei due blocchi principali, o forse proprio per questo, non ha ottenuto un ruolo preminente nell’agenda dei media americani ed europei. E neppure all’orizzonte, almeno apparentemente, vi sono segnali che essa possa salire alla ribalta, mancando in Europa leader politici abbastanza forti o convinti da propugnarla e convincere, a loro volta, le proprie popolazioni, gli altri leader del mondo, le elité economiche e i propri influencer della giustezza di tale prospettiva ai fini di una cooperazione comune.