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Il ritorno dell’Impero. Putin mostra le carte

Con il discorso di stasera e l’invio delle truppe a Donetsk e Luhansk probabilmente si compie, nella retorica putiniana, il passaggio definitivo da un’eredità sovietica all’adozione del discorso nazional-imperiale. Il commento del prof. Giovanni Savino (Accademia presidenziale russa, Mosca)

Il dado è tratto. Vladimir Putin, in un discorso durato quasi un’ora, ha riconosciuto la sovranità delle due repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Un esito scontato, dopo la riunione del Consiglio di sicurezza di lunedì pomeriggio, ma il discorso ha un’importanza fondamentale per comprendere l’immaginario putiniano, le sue linee di fondo, i suoi riferimenti culturali e ideologici.

Il discorso si pone in continuità ideale con il lungo testo pubblicato nel luglio scorso, e di cui si è fornita un’analisi qui, dove al centro vi era l’artificiosità dell’identità nazionale ucraina, considerata frutto delle politiche prima della Polonia-Lituania e poi dell’impero austriaco, e concretizzatesi nella nascita dell’Ucraina sovietica per volontà di Lenin.

Proprio il leader comunista è stato il bersaglio degli attacchi del presidente russo: definito l’architetto e il costruttore dell’Ucraina odierna, Putin ha definito il paese “l’Ucraina di Vladimir Ilic Lenin”, e ha accusato i bolscevichi di aver ceduto i territori della “Russia storica” per mantenere il potere, riferendosi anche alla pace di Brest-Litovsk del 1918.

In aggiunta, il presidente ha detto di voler dimostrare alle autorità ucraine “la vera decomunistizzazione”, su cui però non si è dilungato. Un passaggio che, portato alle estreme conseguenze, potrebbe avere delle implicazioni molto particolari, visto che dai territori dell’impero russo son sorte le repubbliche che oggi attorniano la Russia, e non solo le post-sovietiche, ma anche Finlandia e Polonia, possedimenti zaristi fino alla Prima guerra mondiale. Ancora oggi, minoranze russe vivono nel Baltico e nel Kazakistan settentrionale: anche quelle regioni son da considerare consegnate dai bolscevichi ai nazionalisti locali?

Nella narrazione putiniana, all’epoca nessuno chiese il parere degli abitanti dei territori dati alla nascente Ucraina, e il Donbass venne in essa “ficcato”, per citare letteralmente il presidente: nonostante questo, con la caduta dell’Urss la Russia ha riconosciuto l’indipendenza di Kiev.

Ma l’Ucraina indipendente, secondo Putin, sin dagli inizi si è mossa contrattando sia con l’Occidente che con la Russia, e si è vista corrosa dalla corruzione, fino al Maidan, utilizzato dai nazionalisti per prendere il potere, sotto la protezione delle potenze occidentali. Un Paese, l’Ucraina nelle parole del presidente, completamente eterodiretto, alla mercé di bande di estremisti, indirizzato verso l’eliminazione della popolazione russofona, con l’accusa di genocidio, già ripetuta più volte negli ultimi giorni.

Uno spazio considerato pericoloso per la sicurezza della Russia, considerata una piazza d’armi in grado di dotarsi anche dell’atomica, riferimento nemmeno velato alle dichiarazioni di Volodymyr Zelensky a Monaco, di cui anche Shoigu aveva parlato nella riunione del Consiglio di sicurezza russo. Ve n’è anche per il Patto Atlantico, il cui scopo principale per il Cremlino è nella distruzione della Russia, sebbene, stando alle parole di Putin, nel 2000 vi fosse stato un tentativo di discussione dell’entrata del paese nella Nato, accolto con freddezza da Bill Clinton.

Il riconoscimento delle due repubbliche appare, alla fine del discorso del presidente, non solo l’espressione della volontà russa di agire da potenza nel “vicino estero”, ma anche il tentativo di vendicare un sentimento d’umiliazione che pervade i ragionamenti al vertice.

La firma dell’accordo di mutuo sostegno, con la richiesta a Kiev di ritirarsi dalle posizioni al fronte, è il suggello di questo stato d’animo. Con il discorso di stasera probabilmente si compie, nella retorica putiniana, il passaggio definitivo da un’eredità sovietica sempre criticata e selezionata e oggi totalmente attaccata all’adozione del discorso nazional-imperiale in voga nella tarda età zarista. Un momento simbolico di ricongiunzione a un modello evidentemente ritenuta dal Cremlino più affine, e però carico di inquietanti interrogativi sul futuro.



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