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Cosa resta dell’Isis dopo la ghigliottina Biden

Di Dario Cristiani

L’uccisione di al-Qurashi da parte delle forze armate americane ha decapitato l’Isis di un capo temibile e difficile da rintracciare. Ma squarcia anche il velo sulla dottrina Biden nella guerra al terrore che non è affatto finita. L’analisi di Dario Cristiani, Iai / Gmf fellow

Con un’azione specifica e mirata delle proprie forze speciali, il 3 Febbraio, gli Stati Uniti hanno ucciso il leader dello Stato Islamico, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi. Da un punto di vista analitico, tale operazione si presta a due tipi di letture, una più immediata rispetto all’impatto di tale morte sui destini del gruppo, e l’altra più ampia, sul significato diplomatico strategico da leggere anche alla luce delle dinamiche di sicurezza europea di questo periodo.

Chiaramente, il primo obiettivo è ridurre la capacità operativa dello Stato Islamico che, negli ultimi anni, ha dimostrato una resilienza notevole. Dopo la perdita del controllo territoriale che aveva caratterizzato l’ascesa del gruppo e che aveva raggiungo il picco nel 2015, la fase dello state-building, lo Stato Islamico ha ripreso ad operare come forza insorgente attiva in attività di guerriglia irregolare (harb al-isabat) nel tentativo non immediate di controllare territori ma di infliggere perdite rilevanti ai nemici.

Il gruppo rimane principalmente attivo nell’Iraq rurale, in diverse parti della Siria, e nel Sinai. Inoltre, nel corso degli ultimi anni il gruppo è emerso prepotentemente in diverse parti del continente africano, ma li le dinamiche appaiano essere più specificatamente locali che non connesse alle scelte e le decisioni della leadership in Iraq. Inoltre, con l’uscita della Nato dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani, la versione locale, lo Stato Islamico del Khorasan, ha ripreso forza ed è presente quasi ovunque.

Come per ogni uccisione di un leader di una formazione jihadista, bisogna fare delle precisazioni. Chiaramente, da un punto di vista formale e simbolico, questa è certamente una grande perdita, anche se Al- Qurashi non è mai stato un leader carismatico e popolare, come poteva essere il suo predecessore Abu Bakr al-Baghdadi o Osama Bin Laden.

Le biografie di Al- Qurashi lo descrivevano come un leader che operava nell’ombra, infatti si sapeva relativamente poco della sua storia personale: leader con una forte preparazione teologica e militare ma non un trascinatore di masse.

In tal senso, era figura più consona alla fase attuale dell’organizzazione di ricostruirsi nell’ombra. Inoltre, già sotto al-Baghdadi il gruppo aveva operato una decentralizzazione delle operazioni, inversione ad U rispetto alle logiche ipercentralizzate e verticistiche che ne avevano caratterizzato l’ascesa anche in territori diversi dall’Iraq e la Siria, come in Libia, dove leader dello Stato Islamico veniva inviati dai territori formalmente parte del Califfato per organizzare le province locali e rispondevano direttamente alla leadership a Raqaa.

Inoltre, come la storia delle decapitazioni delle leadership di vari gruppi jihadisti nei decenni passati dimostra, questi gruppi mantengono una significativa capacità di dotarsi di nuovi leader in tempi brevi. In genere, la morte dei leader non porta ad una significativa riduzione delle loro capacità d’azione.

Esempio classico: si pensi all’azione dei gruppi legati alla galassia Qaedista in Nord Africa e nel Sahel dal 2013. Nonostante la quantità dei leader del jihadismo locale ammazzati da Francia e alleati, che dovrebbe suggerire un movimento in totale disfacimento e declino, al Qaeda nel Maghreb Islamico, in particolare la sua succursale saheliana, il Fronte D’Appoggio all’Islam e i Musulmani (conosciuto con l’acronimo di JNIM, Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin) si sono rafforzati in maniera cosi marcata negli anni da diventare anche un interlocutore politico in Mali, particolarmente con la leadership di Iyad Ag Ghali, e sono riusciti a mettere radici anche in Burkina Faso fino a spingersi ai paesi della costa africana occidentale.

La morte di Al- Qurashi avrà probabilmente un impatto logistico e organizzativo nel breve periodo ma non distruggerà l’organizzazione nel suo insieme.

C’è un’altra dimensione, però, in cui tale azione va analizzata, ed è una dimensione più ampia, se vogliamo strategico-globale: tale azione serve a dimostrare che gli Stati Uniti mantengono una capacità probabilmente unica di proiettare potenza e operare con azioni così specifiche e circonstanziate per attività d’intelligence, dinamiche logistiche e operatività, anche in contesti estremamente ostili, complicati e frammentati come quello siriano.

Tale operazione è avvenuta nel territorio siriano controllato dalle forze di Hay’at Tahrir al-Sham di Abu Muhammad al-Jawlani e, come notato in maniera abbastanza perentoria da Aaron Zelin, uno dei massimi esperti mondiali di movimenti jihadisti, tale operazione apre una serie di interrogativi su come, in primis, i leader dello Stato Islamico possano nascondersi in queste aree, vista la rivalità esistente tra loro e HTS, ma soprattutto come gli americani vi possano operare senza troppi problemi, lasciando quindi aperte domande sull’esistenza di contatti tra le parti. Ciò detto, il focus analitico qui è diverso, ed è sul significato più ampio di tale operazione.

Tanto si è detto sul fallimento del Presidente Joe Biden in Afghanistan. Certamente, il ritiro è stato caotico e per molti aspetti drammatico, ma già prima andava contestualizzato: il ritiro era stato deciso con accordi discutibili dall’amministrazione precedente, e il peso della contrarietà dell’opinione pubblica americana rispetto alla presenza in Afghanistan era tale da suggerire che ogni cambiamento di approccio avrebbe avuto delle ricadute negative sulla nuova amministrazione. Così, Biden ha deciso di fare il più in fretta possibile, accettandone i costi ma conscio che, una volta finito, tale passaggio sarebbe stato presto dimenticato, quanto meno dall’opinione pubblica americana. E, infatti, questo è ciò che è successo. Per gli alleati americani, invece, il ricordo è più vivido, e l’uccisione di Al- Qurashi è un messaggio anche per loro, per dire: noi ci siamo, e siamo ancora capaci di operare ovunque.

Questa azione, data la tempistica, dimostra anche che, sebbene il pivot verso l’area del Pacifico e un certo disinteresse della nuova amministrazione rispetto alle dinamiche medio orientali, mediterranee e africane resta palpabile, al tempo stesso l’amministrazione americana mantiene un interesse ad operare in queste aree quando ci sono interessi di un certo tipo in gioco.

Da questo punto di vista, questa operazione si può anche legare al ruolo di leadership assunto dagli americani rispetto alla questione Ucraina, con l’invio di soldati, armi e quant’altro: se ci sono interessi legati al controterrorismo o al contenimento di potenze rivali, in questo caso la Russia, gli Stati Uniti sono pronti ad intervenire con risolutezza ed efficacia anche laddove sono apparsi meno presenti negli ultimi anni. E questo è un messaggio che Biden vuole mandare a tutti quegli alleati nella Nato e Europa che avevano visto il ritiro dall’Afghanistan come la prova di una certa continuità americana nel non tenere in considerazione le necessità degli alleati.

L’azione che ha portato all’uccisione di al-Qurayshi, quindi, risponde non solo alla necessità immediata di sfiancare lo Stato Islamico mentre prova a riorganizzarsi, ma anche a riaffermare una intatta capacità di proiezione di potenza globale, con una piccola nota a margine però: tale capacità di proiezione sarà usata in maniera sempre più selettiva. Rispetto al sistema di sicurezza europeo e mediterraneo, questo significa che gli Stati Uniti sceglieranno di intervenire solo in determinate, e circostanziate, situazioni. L’era dell’interventismo ad ogni costo americano è probabilmente finita.

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