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Isis? Vivo e vegeto. La radiografia di Sanguini

Di Armando Sanguini

L’uccisione del capo dell’Isis al-Qurashi annunciata dal presidente Joe Biden è una buona notizia ma non deve farci abbassare la guardia. Lo Stato islamico perde pezzi in Asia ma ritrova vigore in Africa, ecco dove. L’analisi dell’ambasciatore Armando Sanguini

“Questo orrendo capo terrorista non c’è più” (This horrible terrorist leader is no more). Con queste parole il Presidente Joe Biden ha annunciato la morte di Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi, il capo dell’Isis siriano. Questi si sarebbe fatto esplodere per sottrarsi alla cattura della coalizione internazionale antiterrorismo a guida americana e delle Forze democratiche siriane (Sdf) nel nord ovest della Siria (Idlib) in un’operazione di rappresaglia per l’attacco di un commando dell’Isis alla prigione di Al-Sina’a (Al-Ghwairan) dove erano reclusi numerosi terroristi.

Si tratta di una duplice, buona notizia: è stato eliminato un pericoloso capo dello Stato Islamico, è stato confermato che il “disimpegno” americano dal Medio Oriente non ha mai riguardato la lotta al terrorismo. A conferma di ciò è venuto il commento pubblico di Biden volto a sottolineare come l’operazione di rappresaglia rappresentava un chiaro messaggio ai terroristi nel mondo: “noi vi cercheremo e vi troveremo”; con ciò lasciando intendere che il terrorismo islamista, identificato nell’Isis, pur sconfitto in Siria e in Iraq, non è affatto scomparso. E questa sarebbe una terza notizia, assai meno buona come il fatto che l’operazione è stata facilitata dalla Turchia che controlla gran parte dell’area di Idlib, rifugio di migliaia di jihadisti.

Dunque il terrorismo islamista si è rifatto vivo e in una zona distante da quella in cui si ritiene abbia la sua consistenza maggiore che secondo fonti delle Nazioni Unite l’Isis sarebbe ancora forte di un contingente stimato tra le 6 e le 10mila unità combattenti, impegnate anche in ruoli di addestramento di nuove reclute.

Ma vi è di più, vi è cioè un insieme di informazioni che inducono a domandarci se l’attacco alla prigione siriana non rappresenti la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più ampio, il singolo fotogramma di una pellicola che, se fatta scorrere, sarebbe rivelatrice della notevole capacità strategica di questo gruppo che, attraverso le proprie organizzazioni ausiliarie, ha continuato a espandersi nel mondo, dal sud-est asiatico all’Africa (sub sahariana e nord-africana) e ovviamente in Medio Oriente.

Penso che se sono rilevanti a questo riguardo l’attacco perpetrato ad una base militare al confine con l’Iraq in contemporanea a quello della prigione siriana e a una serie di operazioni minori nell’ovest iracheno, lo sono ancora di più le cronache relative all’indomani del disastroso ritiro occidentale dall’Afghanistan in merito agli attacchi terroristici verificatisi in quel paese – a partire da quello suicida di Kabul dove morirono più di 17° persone – ivi includendo anche Herat, a noi particolarmente caro.

Per non parlare delle Filippine, con particolare riferimento a Mindanao, su cui il locale affiliato Isis è intervenuto dal 2017 e dei paesi vicini.

Aggiungiamo a questo versante la proiezione del gruppo, inteso nella sua complessiva rete di affiliazioni, nel continente africano. Spicca al riguardo la sua area occidentale che, da ultimo, lo ha visto all’opera in Burkina Faso, oltre che in Congo e nel Nord Africa. E soprattutto nel Sahel, come ben sappiamo, che offre terreno fertile per l’indottrinamento eversivo nel vasto malessere sociale, nel malgoverno e, diciamolo pure, nella scarsità di adeguate forze di sicurezza e nella ricchezza di locali gruppi armati.

Si tratta di un panorama che induce alla riflessione e alla ricerca di collaborazioni trasversali a livello internazionale. Conforta al riguardo l’intesa raggiunta a Roma tra il governo centrale e alcuni gruppi armati soprattutto di etnia araba e tuareg, da anni protagonisti della crisi del Mali, preda del terrorismo jihadista.

È un’intesa importante anche perchè rimette al centro dell’attenzione politico-militare l’accordo di Algeri del 2015 e si realizza in un momento reso ancor più nevralgico dal probabile disimpegno militare di Parigi; di rilievo anche in relazione alla sicurezza del contingente italiano presente nell’operazione “Takuba”, la Task Force multinazionale creata nel 2019 per contrastare il terrorismo e i flussi migratori illegali proprio da quell’area. Da lì del resto viene la principale minaccia per il nostro paese indicato come bersaglio primario pochi mesi addietro sullo sfondo della foto scattata al Ministro Luigi Di Maio e al Segretario di Stato Antony Blinken al vertice di Roma della coalizione anti-Daesh con la scritta “Conquisteremo Roma”.

Insomma, l’uccisione del capo pro-tempore dell’Isis ci deve rallegrare ma non troppo e in ogni caso non fino al punto di allentare la vigilanza sulla minaccia di un terrorismo che non è scomparso perché trova alimento nelle carenze di vita di tante, troppe aree del mondo, anche molto vicine a noi e, per certi versi anche nelle pieghe sociali dell’Italia come dei paesi membri dell’Unione europea e dei nostri partner internazionali. Vigilanza che implica certo tanta attenzione alle tragiche manifestazioni di questo fenomeno quanto alle sue radici, più o meno profonde che non di rado si tende colpevolmente a sottostimare.

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