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Perché Israele potrebbe mediare tra Putin e Zelensky

Di Pietro Baldelli

La volontà di mantenere un canale aperto con entrambe le parti fa pensare che presto il governo Bennett potrebbe decidere di assumere un ruolo cruciale nel dialogo. L’analisi di Pietro Baldelli, visiting research fellow dell’Università ebraica di Gerusalemme

A poche ore dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina gran parte degli attori internazionali hanno adottato la propria posizione nei confronti di un conflitto che supera gli steccati locali per assumere una rilevanza regionale – messa in discussione dell’architettura securitaria europea – e financo globale – riassetto, più generale, dell’intero ordine internazionale con ricadute indirette sui diversi quadranti regionali. Sul fronte occidentale tutti gli Stati, seppure con intensità distinte, si sono schierati compattamente a sostegno di Kiev, fornendo assistenza economica, militare e imponendo diversi pacchetti di sanzioni economiche incrementali verso la Russia.

Nondimeno, tra i Paesi più cauti nel dichiarare il proprio aperto supporto all’Ucraina figura Israele. Pur non appartenendo né all’Unione europea né alla Nato, Israele è a tutti gli effetti considerabile come un Paese appartenente allo schieramento occidentale, in particolare in quanto alleato di punta degli Stati Uniti. Per tale motivo, l’approccio di cauta condanna verso Mosca adottato fino a questo momento dallo Stato ebraico e la conseguente volontà di limitare il sostegno a Kiev, impedendo il trasferimento di sistemi d’arma potenzialmente decisivi per le sorti del conflitto, hanno generato non pochi malumori nelle cancellerie occidentali e in Ucraina.

La posizione di Israele verso il conflitto russo-ucraino rappresenta un unicum che deriva da un dilemma con cui si trova a fare i conti lo Stato ebraico, il quale non può prescindere dal mantenimento di buone relazioni con entrambe le parti in conflitto. Unico Paese dello schieramento occidentale a poter vantare relazioni privilegiate sia con Mosca che con Kiev, lo Stato ebraico si trova ora intrappolato in una situazione tipicamente assimilabile al paradosso del comma 22 – formulazione enunciata da Joseph Heller nell’omonimo romanzo Catch 22 volta a descrivere una circostanza in cui un soggetto che si trova dinnanzi a due opzioni ha facoltà di scegliere solo in apparenza. Una posizione scomoda che gli impedisce pertanto di assumere una postura più dura nei confronti dell’aggressione russa.

Nel medio periodo tuttavia, per fuoriuscire indenne da questa trappola, Israele potrebbe decidere di assumere un ruolo più proattivo, finendo per accettare il ruolo di mediatore non appena dalla fase militare delle ostilità gli attori in campo decidessero di ritornare al tavolo negoziale. Tanto più considerando la non spendibilità della Bielorussia, che da sede dei negoziati che portarono agli accordi di Minsk del 2015 ha assunto in questa fase lo status di parte in causa del conflitto, a fianco di Mosca. Per comprendere perché Israele potrebbe ambire a giocare tale inedito ruolo, pur rappresentando una media potenza che insiste in un quadrante regionale apparentemente distante come quello del Medio Oriente, è necessario analizzare i suoi interessi in gioco e le ragioni che lo legano a Mosca e a Kiev.

Per capire in che modo Israele guarda alla Russia è necessario individuare tre livelli di indagine differenti che trascendono la mera interlocuzione inter-statuale. In primo luogo, la Russia rappresenta per lo Stato ebraico una componente della propria memoria storica. È nei territori russi infatti che partirono alla fine del XIX secolo le prime due alyoth, cioè le ondate migratorie sionistiche che giunsero nella Palestina ottomana ambendo alla creazione di uno Stato indipendente.

In secondo luogo, l’influenza russa può essere avvertita sul piano sociale e politico interno. Un fenomeno relativamente recente che ha ulteriormente accentuato le radici russe di Israele è l’arrivo all’inizio degli anni novanta dei così detti refusenik, gli ebrei con passaporto sovietico – circa un milione di persone. Per tale comunità, molto influente nel tessuto sociale israeliano, la Russia rappresenta un riferimento culturale a cui rimanere ancorati – il russo è la terza lingua più parlata nel Paese, dopo l’ebraico e l’arabo. Per tale motivo una presa di posizione eccessivamente dura nei confronti di Mosca rischierebbe di alienare una parte influente della popolazione israeliana, ancorché molti israeliani con passaporto russo si siano pubblicamente schierati contro l’aggressione russa dell’Ucraina.

In ultima istanza, a partire dall’intervento militare in Siria nel 2015 e con il concomitante disimpegno americano dal Medio Oriente, Mosca ha assunto un ruolo rilevante anche nei calcoli strategici dello Stato ebraico, come power broker con cui dover fare i conti. Una valutazione, questa, condivisa con altri attori del quadrante, come i partner degli Stati Uniti nel Golfo che, a eccezione del Kuwait, hanno egualmente adottato una postura cauta nei confronti di Mosca – emblematica in tal senso è l’astensione degli Emirati Arabi Uniti a una risoluzione di condanna nei confronti di Mosca presentata al Consiglio di Sicurezza Onu. Tornando a Israele, va ricordato il tacito accordo con cui, con il beneplacito di Mosca, l’aeronautica israeliana è lasciata libera di condurre raid aerei su obiettivi iraniani in territorio siriano, in quella che viene definita nella dottrina di difesa israeliana la war between wars. È notizia di qualche settimana fa che la Russia avrebbe iniziato a ridiscutere i termini di questo accordo, mettendo in discussione la libertà di azione concessa agli israeliani e mettendo in piedi missioni signalling di pattugliamento congiunto con l’aeronautica siriana delle Alture del Golan e dintorni. Altro dossier in cui le azioni di Mosca possono impattare direttamente la sicurezza nazionale israeliana sono i negoziati di Vienna sul nucleare iraniano, percepito dagli israeliani come una minaccia esistenziale. Pertanto, anche su questo piano, Israele non può permettersi di rompere totalmente il legame con Mosca.

Anche in riferimento all’Ucraina lo Stato ebraico può vantare delle relazioni privilegiate tra rispettive popolazioni. In Ucraina vive ancora oggi una comunità di circa 50.000 ebrei – anche il presidente Volodymyr Zelensky proviene da una famiglia ebraica. Per la particolare conformazione istituzionale assunta fin dalla sua fondazione da Israele, il quale si definisce “Stato ebraico e democratico”, esso si identifica come l’entità statuale in cui trova soddisfazione il diritto di autodeterminazione nazionale del popolo ebraico. Seguendo questa formulazione, giuridicamente sostanziata nella Legge di Ritorno del 1950, ciascun ebreo ha il diritto di ottenere la cittadinanza israeliana, facendo pertanto di Israele la patria di ciascun ebreo, financo di quelli ucraini, indipendentemente dalla propria cittadinanza.

Una simile interpretazione è rintracciabile anche sul piano militare nella dottrina delle Forze di difesa israeliane del 2015, unico documento di tale livello mai pubblicato. Nel secondo dei quattro obiettivi nazionali elencati viene definita la necessità del mantenimento del carattere di patria del popolo ebraico dello Stato israeliano. Non si dimentichi, inoltre, il valore che l’Ucraina assume per una parte demograficamente sempre più rilevante della popolazione ebraica di Israele, ovvero i chassidim, frangia di quella che viene definita la corrente ultra-ortodossa dell’ebraismo. Ogni anno circa 25.000 ebrei si radunano nella cittadina di Uman, luogo di origine della comunità chassidica. Considerato il legame appena descritto, è possibile comprendere le ragioni che spingerebbero Israele a un maggiore sostegno, politico e militare, delle ragioni di Kiev.

Anche in relazione a quanto detto, negli scorsi mesi aveva tentato di far leva il Presidente Zelensky, richiedendo a Israele un maggiore supporto. Nella visita del presidente israeliano Isaac Herzog a Kiev dell’ottobre scorso, per esempio, gli ucraini avrebbero richiesto la fornitura del sistema anti-missilistico Iron Dome, poi non accordata da Israele. A dicembre Kiev ha ulteriormente alzato la posta in palio quando, in occasione delle celebrazioni per il trentennale delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, l’ambasciatore ucraino a Tel Aviv, Yevgen Korniychuk, ha annunciato la volontà di aprire una rappresentanza diplomatica dedicata alla cooperazione economia a Gerusalemme.

Complessivamente, i profondi legami con la Russia e l’Ucraina appena descritti hanno portato a una risposta cauta di Israele nei confronti dell’invasione russa. Il primo ministro Naftali Bennett nelle sue prime dichiarazioni successive alla dichiarazione di guerra di Putin ha dichiarato solidarietà al popolo ucraino senza condannare l’azione russa. La parte del poliziotto cattivo è stata lasciata al ministro degli Esteri Yair Lapid, il quale ha definito l’attacco russo come una violazione dell’ordine internazionale. Al di là delle dichiarazioni, pur importanti, lo Stato ebraico non ha preso contromisure sostanziali come l’imposizione di sanzioni economiche. La volontà di mantenere un canale aperto con entrambe le parti fa pensare che proprio Israele nei prossimi giorni o settimane potrebbe decidere di assumere in prima persona il ruolo di mediatore. Una proposta che in realtà, secondo le ricostruzioni del giornalista Barak Ravid, sarebbe stata fatta già lo scorso ottobre da Bennett a Vladimir Putin nel loro primo incontro a Sochi, ma rifiutata da quest’ultimo. Nelle ultime ore sarebbe stata Kiev a richiedere un maggiore ruolo israeliano in qualità di intermediario ma, almeno per il momento, nulla è stato fatto in questa direzione. Resta da capire se, con il passare dei giorni e, auspicabilmente, con un rallentamento dell’avanzata russa verso la capitale ucraina, la quale si sta dimostrando più difficile del preventivato, questa ipotesi possa riprendere slancio.

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