Buon compleanno Rolling Stones. A Londra il 12 luglio del 1962 si esibirono per la prima volta al Marquee, uno dei templi del rock di quegli anni ruggenti. Sessant’anni di carriera, 250 milioni di dischi venduti, 35 album e 18 live, praticamente una vita di concerti ancora in via di sviluppo
Vabbè, in cima alla lista degli highlander del rock ci sarebbero ancora due band, i californiani Beach Boys e i Golden Earring, di origine olandese, che Wikipedia darebbe ancora in attività di servizio dal 1961. Ma, se permettete, vorrei riferirmi non solo alla longevità anagrafica – magari si può anche mantenere il brand della band in una Rsa che applaude facendo il tifo con le flebo e i pappagalli – bensì alla capacità di riempire stadi, vendere musica, creare emozioni e farsi ascoltare da tre generazioni di adepti del rock e del blues, zompellando su palcoscenici come grilli senza doversi travestire da imperatori bizantini a spasso per i Quartieri Spagnoli di Napoli.
Ragazzi: parliamo dei 60 anni dei Rolling Stones, battezzati a Londra il 12 luglio del 1962 nel Marquee, uno dei templi del rock di quegli anni ruggenti. Sessant’anni di carriera, 250 milioni di dischi venduti, 35 album e 18 live, praticamente una vita di concerti ancora in via di sviluppo: monumenti di un’ antropologia del nuovo protagonismo giovanile, oltre che di una colonna sonora perenne, valevole per un arco generazionale che va dal popolo dei pensionati Inps ai coetanei dei Maneskin, portatori (sperabilmente) consapevoli di debiti immani nei confronti di Mick Jagger e co.
Tanto per non fare paragoni, in quella età dell’oro della musica giovanile si celebrò il “miracolo” della band che avrebbe rivoluzionato tutti i canoni del tempo, dalla musica, al costume, alla cultura delle giovani generazioni e persino ai topoi del nuovo tempo, con l’invenzione della Swinging London. Si chiamavano Beatles, nacquero due anni prima e regnarono dal 1960 al 1970: un sesto della vita dei Rolling.
Ecco, Mick Jagger, Keith Richards, Ronnie Wood, e il compianto Charlie Watts (se ne è andato l’anno scorso), non hanno mai ceduto un millimetro del loro palcoscenico in questi ultimi sessant’anni, attraversando come salamandre nel fuoco tutti i linguaggi che potessero connettere il loro rock ad alta gradazione alcolica, imbevuto fino all’orlo di blues e qualche volta spruzzato con ritmiche giamaicane, con un popolo di fedeli sempre in progress.
Quando il gruppo cominciava ad affacciarsi sulla scena musicale britannica dominata dal pop stilizzato e quasi perbenista dei Beatles, i produttori dei Rolling li lanciarono come bad boys, una banda di ragazzi cattivi che faceva sintesi efficace di sesso-droga-rock and roll, agitando l’icona sensuale del frontman Mick. E bisogna dire che quei ragazzacci, che invece coi Beatles andavano d’accordissimo (si scambiavano perfino le canzoni), non facevano moltissimo per levarsi di dosso l’aura di dannati.
Nel curriculum non manca niente: droga, tanta e purtroppo anche letale, Brian Jones, talentuoso polistrumentista e cofondatore del gruppo ci rimise la pelle a 27 anni, entrando nel tristemente noto club 27, di giovani rocker come Hendrix, Joplin, Morrison, Winehouse morti per overdose; sesso pluriverso e seriale (Mick ha avuto l’ultimo dei suoi otto figli a 73 anni, sei anni fa); rock ‘n roll tanto e di ottima qualità e, per non farsi mancare niente, quella puzzetta di zolfo alimentata da qualche titolo mefistofelico, come Sympathy for the devil, brano di apertura di uno degli album più belli (Beggars Banquet, 1968) che, a leggerlo bene, alla fine si può scoprire persino come un testo con catalogo delle atrocità commesse dall’uomo (dalla rivoluzione russa all’assassinio di Kennedy), insomma una condanna del male piuttosto che il contrario.
Ma i Rolling Stones sono di più: sono artisti crossover che piacquero al guru della Pop Art, Andy Wharol, al punto da fargli disegnare le immagini dei loro album – un’icona perenne la patta del jeans con la zip che si apre nella copertina di Sticky Fingers (1971) – oltre che repliche infinite della faccia di Mick alla maniera, appunto, wharoliana.
Ero poco più che bambino quando ascoltai per la prima volta un loro brano, Let’s Spend The Night Together, del 1967. Credo fosse un servizio di “Tv sette”, un magazine della Rai in bianconero che raccontava di questo fenomeno travolgente della band che stava conquistando il mondo giovanile. Ascoltavo quel riff che mi entrava nel cervello e non mi lasciava più: decisi che avrei scoperto tutto di questi quattro ragazzi inglesi che facevano una musica così sporca e diversa da quella dei Beatles che pure rappresentavano per me il massimo dell’ascolto esotico dell’epoca. Mi andai a tradurre il titolo: “Passiamo la notte insieme”, uno scrigno di meraviglie che neanche riuscivi a immaginare compiutamente all’età di dodici anni.
Chi sono i Rolling Stones è raccontato bene da una sola immagine, quella linguaccia del logo, disegnato da un ragazzo di 24 anni del Royal College of Art di Londra e pagato, secondo la leggenda, solo poche sterline. In quella linguaccia c’è tutto: l’insolenza, la sensualità, l’antiautoritarismo di una generazione che preparò col 1968 l’avvento dei giovani come soggetto sociale, un’eco della Pop Art di Andy Wharol. La certezza che il rock and roll never dies.
Buon compleanno Rolling Stones: pensate, siete in pista da tre anni prima ancora che da noi circolassero le barchette dell’Oriettona nazionale, quelle che si lasciavano andare fin quando andavano da sole…
(Foto: Umberto Pizzi-riproduzione riservata)