Addio Mr. Wolf, benvenuto Mr. Draghi. Da risolvi-problemi a politico tout-court, in un anno il premier ha dovuto fare i conti con un drastico cambio di contesto, prima ancora che di registro. Il commento di Martina Carone (Youtrend)
Da sempre, lo stile comunicativo di Mario Draghi è sotto la lente di osservazione di molti analisti. E lo è ancor più, e con maggiore intensità, da quando è diventato presidente del Consiglio, a capo del terzo governo di una legislatura sgangherata, caratterizzata da un parlamento frammentato, in cui per poter avere una maggioranza serve per forza unire idee, visioni e interessi elettorali diversi e complessi.
Per riuscire in questa impresa, abbiamo osservato due diverse modalità: da una parte, il (goffo) tentativo di rappresentare un punto di equilibrio tra forze politiche con valori e programmi molto distanti, in due governi consecutivi e di orientamento ideologico opposto. Successivamente, complice la pandemia, il focus politico (ed economico-sociale) si è spostato sui temi dell’unità nazionale e del sostegno “cieco” e trasversale al governo in carica, azzerando di fatto il dibattito politico.
In questo secondo scenario, i presidenti del Consiglio hanno adottato, di fronte a questa responsabilità e a questa situazione anomala, diversi registri comunicativi. Giuseppe Conte, durante la prima fase emergenziale, ha iper-personalizzato la comunicazione istituzionale, calcando molto la mano sulla necessità di sostenere un governo che avesse l’obiettivo di traghettare l’Italia fuori dalla crisi, avviare la campagna vaccinale e ristorare le perdite economiche, lavorando per far ottenere all’Italia i fondi europei per la ripresa.
Proprio il mancato raggiungimento di (alcuni di) questi obiettivi gli è costato l’appoggio di alcuni partner di maggioranza, e la sua sostituzione con Mario Draghi. Quest’ultimo ha sin da subito impostato – comunicativamente ma anche a livello di visione – il suo governo in modo diverso. Come un novello Mr. Wolf, la sua investitura è sembrata quasi un commissariamento della politica partitica, e la sua proverbiale capacità comunicativa è apparsa perfetta per questa visione: poche parole, molti fatti.
Poche occasioni di dibattito, pochi (o nessun) social, scarsa interazione con i cittadini, molte conferenze stampa, costellate di frasi tranchant verso le esuberanze dei partiti – e non solo. Frasi che – al pari di quella celebre che da presidente della Bce gli valse addirittura il nomignolo di Mr. “Whatever it takes” – hanno avuto un forte impatto, come quelle, velenose, contro chi alimentava i dubbi dei no vax (“l’invito a non vaccinarsi è un invito a morire”), o hanno causato tensioni sul piano diplomatico (“Erdogan? è un dittatore”), a cui si sono aggiunte le molte risposte “secche”, senza esitazioni o giri di parole (“Pensate che la via potrebbe essere l’introduzione dell’obbligo vaccinale?” – “Sì.”).
Una comunicazione, quindi, lapidaria, diretta, che non ha lasciato molto spazio per i sottintesi e men che meno per le interpretazioni. Ma questo stile lo abbiamo visto cambiare durante le settimane che hanno preceduto l’elezione per il Quirinale, in cui evidentemente Draghi – subodorando la possibilità di salire al Colle – ha modificato leggermente il proprio registro comunicativo, rendendolo più “morbido”, empatico (come quando si definì “un uomo, se volete un nonno, al servizio delle istituzioni”) e su certi temi volutamente evasivo.
Questa, però, è stata evidentemente solo una parentesi: perché, subito dopo la rielezione di Mattarella, non solo è cambiato – e non di poco – il contesto politico, ma anche le modalità con cui il Presidente del Consiglio dimostra quella che in molti han definito una vera e propria insofferenza verso i partiti. In sintesi, Mario Draghi è tornato quello che conoscevamo: diretto, tranchant e molto incisivo.
Comunicativamente, Draghi non è cambiato: parentesi quirinalizia a parte, quindi, non esiste un Draghi decisionista diverso dal Draghi insofferente. A cambiare è il contesto politico, in cui si vede il pieno appoggio al suo governo di ieri lasciare spazio alla politica partitica in cui, fondi alla mano e commissioni riunite, il suo governo va sotto in ben quattro occasioni causando la sua (lecita) insofferenza.
E naturalmente, insieme al contesto politico, è cambiata anche la narrazione che ne viene data: media e politici (intesi come partiti) da questo punto di vista hanno alimentato questo nuovo clima in cui improvvisamente viene meno “l’infallibilità” di Draghi (mai sostenuta né suggerita dal diretto interessato) e torna imprescindibile la centralità del ruolo del Parlamento e la dignità della politica. Anche questa, come tante altre, è una dinamica non nuova nella parabola delle leadership politiche italiane.