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Gli Strange days di Sanremo. Scrive Zanini

Di Andrea Zanini

La settimana santa di Sanremo fra Strange days e Pam & Tommy su Disney +. Un ritorno degli anni 90 che tecnologicamente hanno segnato la miniaturizzazione delle telecamere, sono stati il precursore dei selfie, del feticismo dell’immagine autocelebrativa e dell’ideologia totalitaria dell’evento mediatico come massima espressione della libertà del pubblico

Quest’anno la “settimana santa” di Sanremo è stata più estraniante del solito. E non solo a causa “dell’ambaradam spettacolare” raccontato nell’eccellente Fenomenologia di Sanremo di Pino Pisicchio su Formiche.net. No, c’era dell’altro. Era come se alcuni alieni fossero apparsi fugacemente durante le serate della diretta dal teatro Ariston, facendo sentire allo stesso tempo la loro presenza nelle strade di una Roma semi deserta e sfiancata da due anni di pandemia. All’inizio ho associato questa particolare sensazione alle sagome senza volto che camminavano frettolosamente in strada; la loro andatura veloce, quasi fossero in fuga, i loro occhi sbarrati a compensare la mancanza d’ossigeno provocata dalle mascherine, congiuravano a creare un’atmosfera bizzarra e inquietante.

Un’aria che mi ha ricordato Strange days, il bellissimo film di Kathryn Bigelow che raccontava i crimini e i misfatti nella Los Angeles del capodanno del 2000.  Sullo sfondo di luride strade in fiamme percorse da masse ipnotizzate da un millenarismo di ritorno, sospeso e senza giudizio universale, Los Angeles è dominata dalla violenza di tutti contro tutti: gang criminali, band musicali (e anche criminali), poliziotti feroci. In questo clima di apocalisse, nella città degli angeli regna lo Squid, la “droga” tecnologica che consente di rivivere le esperienze di vita degli altri a tutti i livelli sensoriali. Lo Squid e il black jack – una sua deformazione particolarmente efferata che consente di vedere il proprio omicidio con gli occhi di chi lo compie – ti proiettano in un’altra dimensione, in un tempo che non è più il tuo.

Passeggiando con questi ricordi ho finalmente capito. Pam & Tommy. La più grande storia d’amore mai venduta: ero andato a sbattere sulle facce dei due attori che impersonano Pamela Anderson, star della serie Baywatch più volte sulla copertina di Playboy, e Tommy Lee, batterista del gruppo heavy metal, Mötley Crüe. La miniserie Pam & Tommy racconta la storia del video privato che la coppia aveva girato nel 1995 dopo il matrimonio e che fu rubato dalla loro cassaforte. Il video durava circa un’ora e conteneva quasi dieci minuti di sesso dei novelli sposi. La storia è nota sia perché venne raccontata nel 2014 da Rolling Stone, sia perché il video è stato tra i più scaricati e visti dall’immensa platea del porno online. Fino a qui, nulla di strano. La solita grande industria dell’intrattenimento con le sue regole, le sue mi(ni)serie e il suo voyeurismo, fonte di grande fama, che però, a volte, travolge anche le star più smaliziate banalizzando la loro vita.

Il primo degli elementi alieni è proprio questa campagna promozionale. Prima di tutto perché la miniserie va in onda su Disney +, sì avete capito bene, proprio la piattaforma di Topolino & Co., Jungle Cruise, Mulan, Aristogatti, ecc. che ha l’obiettivo di estendere agli adulti la platea della major americana, diventata gigantesca a forza di acquisizioni; il secondo elemento estraniante è stato vedere la pubblicità di questo prodotto tra una canzone e l’altra del Festival di Sanremo, il più grande show nazional popolare per famiglie.

Inoltre la pubblicità di Pam & Tommy non è stata l’unica promozione di un concorrente Rai. Tra gli spot lanciati da Amadeus, c’erano anche le promozioni (aliene) di Netflix, Amazon, Now (altra rete della piattaforma Sky) e Spotify, che invitava a riascoltare i brani in gara a Sanremo. Senza dubbio la pandemia ha accelerato una diversa fruizione dei film e della fiction in tv, è quindi comprensibile la nuova logica commerciale dei giganti dello streaming, che a differenza degli inizi quando puntavano a nicchie ora vogliono sfondare anche nel pubblico generalista. Chi scrive è quanto di più lontano da pensieri e atteggiamenti moralisti, d’altro canto chi governa il servizio pubblico dovrebbe riflettere più attentamente su scelte editoriali e commerciali il cui dividendo va sempre contemperato con il rispetto della missione formativa e con conseguenze potenzialmente negative sull’identità del marchio Rai.

Torniamo a Pam & Tommy – in cui è giusto sottolinearlo non ci sono scene porno – e al non casuale accostamento a Strange days. Sia l’antefatto della miniserie di Disney + che il film di Kathryn Bigelow sono dello stesso anno, il 1995. Gli anni ’90 – che tecnologicamente hanno segnato la miniaturizzazione delle telecamere – nella nostra subcultura mediatica sono stati il precursore dei selfie, del feticismo dell’immagine autocelebrativa e dell’ideologia totalitaria dell’evento mediatico come massima espressione della libertà del pubblico (Guy Debord non va mai in soffitta, n’est pas?). Un brodo che mescolando i frammenti di vita di persone diversissime tra loro ha creato una vera e propria droga voyeuristica che grazie al moltiplicatore della rete ci fa credere, oggi, di essere protagonisti di eventi appartenuti ad altri soggetti e avvenuti in altri luoghi, il pacchetto completo senza muoversi dalla nostra poltrona. Proprio come nello Squid di Strange days.

 

 

 


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