Quello delle pensioni è un tema che consentirà di capire se il premier è ancora in grado di dare indirizzo al governo su un tema importante e che riguarda l’intera finanza pubblica o, invece, è costretto a mediazioni tra le forze politiche e sociali
Il primo banco di prova per Mario Draghi è la riforma delle pensioni a cui ministero del Lavoro e sindacati stanno lavorando alacremente al fine di avere uno schema delineato e quantizzato in tempo utile per il Documento di Economia e Finanza 2022 (Def 2022) che deve essere completato entro aprile e fornisce la cornice per la prossima legge di bilancio.
È un banco di prova perché consentirà di toccare se Draghi, fallito il tentativo di trascolare al Quirinale, è ancora in grado di dare indirizzo al governo su un tema importante e che riguarda l’intera finanza pubblica o, invece, è costretto a mediazioni tra le forze politiche e sociali ed anche ad ingoiare soluzioni che da economista dovrebbe respingere.
Per quanto sussurrano gli spifferi che vengono da quel marciapiede di via Veneto dove ha sede il sancta sanctorum del ministero del Lavoro, con la riforma si ipotizza l’uscita a 62 anni o anche con 41 anni di contributi. Di questo si parlerà negli incontri tra governo e sindacati calendarizzati per il 3 ed il 7 febbraio.
Centrale allo schema è la flessibilità in uscita che, come scritto più volte su questa testata, è in linea con il metodo contributivo per il computo degli assegni. I sindacati puntano sull’uscita a partire dai 62 anni oppure con 41 anni di contributi senza tenere conto dell’età, la tanto reiterata Quota 41. I sindacati chiedono ancora una volta di poter garantire l’uscita dal mercato del lavoro prima dei 67 anni, termine oggi per la pensione di vecchiaia. Con la pensione a 62 anni si esce prima rispetto anche all’attuale Quota 102, introdotta con la legge di Bilancio 2022 per superare Quota 100. Con la nuova misura si può andare in pensione con 64 anni di età e 38 di contributi.
Al centro del prossimo confronto ci saranno le pensioni per giovani e donne. Per quanto riguarda i primi, si cercherà di garantire condizioni più dignitose per la pensione futura dal momento che il rischio è che i giovani possano uscire dal mercato del lavoro a 70 anni e con un assegno esiguo. Al centro del tavolo ci sarebbero in generale le carriere discontinue dei lavoratori e delle lavoratrici che rientrano nel sistema interamente contributivo e che possono vantare periodi non coperti da contribuzione.
L’obiettivo sarebbe quello di coprire quindi i periodi senza contributi versati con bonus e nel dettaglio:
• periodi di formazione;
• periodi di disoccupazione;
• periodi in cui ci si occupa della famiglia.
In particolare per le pensioni delle donne si pensa, e se ne parla ormai fa tempo, di agevolare quelle che hanno figli quindi aiutare le madri lavoratrici. I sindacati tornano a chiedere al governo di riconoscere uno sconto contributivo di 12 mesi per ogni figlio alle donne madri lavoratrici.
Tutte proposte che ad una lettura fugace sembrano belle e buone, ma scardinano il metodo contributivo della riforma del 1995 se non vengono accompagnate da correttivi quali:
a) Una netta separazione contabile tra previdenza ed assistenza. Tra le storture in atto c’è quella gravissima delle “pensioni lunghe”. Dalle anticipazioni del rapporto del centro studi Itinerari Previdenziali in base a vecchie leggi su varie tipologia di “pensioni baby”, ad oggi sono in pagamento 423.009 pensioni per il settore privato e 53.270 per il persone pubblico, la cui erogazione è iniziata prima del 1980 – ossia oltre quarantani di pensionamento. Occorre chiedersi quanti di questo mezzo milioni di pensionati hanno continuato a lavorare fatturando (e se del caso, con partita Iva) e quanti hanno continuato a lavorare al nero, frodando l’erario. È difficile ipotizzare mezzo milioni di panchine; se ci sono, sono invisibili. Dato che è arduo ipotizzare controlli efficaci da parte dell’ispettorato del lavoro su numeri così grandi, e che è ancora più difficile legiferare un blocco oltre un certo numero di anni alle baby pensioni, si dovrebbe stabilire quanto meno che dopo, diciamo, 20 anni, vengano classificate come supporto al reddito piuttosto che come previdenza. Ciò renderebbe i confronti internazionali sulla spesa pensionistica quanto meno più omogenei.
b) Altra stortura quella dei “silenti”. Come più volte sostenuto su questa testata, prima di procedere ad una nuova riforma, l’Inps dovrebbe rendere noti i dati finanziari sui contributi versati senza dare luogo a prestazioni, da milioni di lavoratori, noti come “contributori silenti” (lavoratori deceduti senza diritto a pensione, lavoratori deceduti senza superstiti, stranieri rimpatriati con bassa contribuzione, lavoratori che hanno versato, ma che poi hanno dovuto/voluto scegliere l’economia sommersa senza avere raggiunto il diritto a prestazione, disoccupati di lunga durata che non riescono a maturare requisiti minimi, donne che hanno perso il lavoro senza avere diritto a pensione, prestazioni previdenziali non riscosse). È possibile che le somme siano tali da permettere di finanziare uno “zoccolo duro” per i giovani ed un bonus per le lavoratrici madri.
c) Infine, cosa succede con i bonus? Come verranno computati nel montante individuale che è il cardine del metodo contributi? Sono interrogativi molto delicati perché se si comincia a scardinare una parte del sistema, si apre la strada per scardinarlo tutto.
C’è un forte rischio di un gran guazzabuglio. Sarebbe più semplice adottare la proposta di legge presentata, nel lontano dicembre 2009, alla Camera da Cazzola ed altri ed al Senato da Treu ed altri (e che si può leggere cliccando qui), una base semplice, chiara e pulita per un sistema simile uno sgabello a tre gambe i) una finanziata dalla fiscalità generale ed eguale per tutti come pensione di vecchiaia (da riscuotere non prima dei 67 anni o di altra età determinata da criteri connessi all’aspettativa di vita; b) una rigorosamente contributiva e “flessibile” (prima si va in pensione più piccolo è l’assegno); c) ed una interamente privata (con l’impegno di non cambiare ogni due – tre anni l’imposizione tributaria).
Questi aspetti non sono solo tecnico-economici ma hanno una forte caratura politica. La posizione che prenderà Draghi sarà eloquente sul ruolo e sul peso che il professore ha nel governo.