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Phisikk du role – Fenomenologia di Sanremo

Al servizio pubblico domando: è questo che intendiamo quando parliamo di tv come arte e spettacolo proiettate verso la formazione? Nessuno scandalo, per carità, però… La rubrica di Pino Pisicchio

Umberto Eco nel suo Diario Minimo profetizzava la lettura della storia italiana attraverso i testi di Sanremo. Il grande, immaginifico e pluriverso intellettuale, che già nel 1961, con la fenomenologia di Mike Bongiorno, raccontava il rapporto amorevole tra il nuovo medium televisivo e la platea degli italiani che si identificavano in Mike, l’uomo medio per antonomasia, captò prima di tutti l’aria che tirava e il valore antropologico del fenomeno festivaliero.

Lo schema, che all’epoca si poggiava su una sola tv di Stato in elegante bianconero, era molto semplice: Sanremo-evento, media della carta stampata e della radio convergenti nel celebrarlo, lustrini ed eleganza da rotocalco, melodie affidate ad ugole vibranti o tardoadolescenti che non avevano l’età, famiglie e condomini riuniti nel tinello davanti a radiomarelli di legno per l’ascolto dei beniamini.

Ho ricordi personali, di qualche anno più tardi, quando, padrone del mio libero arbitrio, mi rifiutai di ascoltare eterne declinazioni di note melodiche all’italiana (e testi lancinanti di amori stracciati) con il timpano irrorato dalle onde che Arbore e Boncompagni facevano partire dalla radio, aprendo una prateria di meraviglie musicali che si chiamavano rock, rithm&blues, reggae, musica elettronica, insomma la modernità contro il piccolo mondo antico.

Qualche volta, in attesa di un’ospitata che mi interessava, ascoltavo qualcosa: ricordo l’arrivo di Annie Lennox, credo nel 2009, che cantava Why: in un momento scomparvero tutti gli albani, le aquile di ligonchio e dintorni, le arise, I masini, eternamente presenti in queste kermesse. Il problema non è la voce: è quel che ti fanno cantare e come l’arrangiano. Insomma: non c’era storia.

Così, prima in attesa del mio amico Luca Medici, in arte Checco Zalone (che non sapevo fosse solo in seconda serata), poi per espiare colpe che non ricordo ma non si sa mai, ho guardato Sanremo 2022. Cominciando dalla musica, che invece si sa, sarebbe solo condimento periferico, come una spolverata di prezzemolo, mentre il piatto forte è l’ambaradam spettacolare.

Devo essere onesto: l’ascolto mi ha fatto sorgere spontanea la domanda sul perché ai giovani, in qualche caso anche dotati, non si offra qualche possibilità di autori professionisti collaudati, accettando invece il pacco “cantante/canzone da lui scritta e musicata”. Il risultato è stato un’infilata di inutili recitati alla maniera rap (che hanno cominciato a mettere in galera), esilissimi giri di note su cui si consumano i tre minuti, puntando tutto sulla scena piuttosto che sulla qualità musicale, che sembra un catalogo di musica così e così e già ascoltata.

Certo qualche eccezione c’è, ma in genere questi prodotti dei talent si somigliano tutti e non sembrano candidarsi alla storia della musica. Tuttavia quel che rileva, dicevamo, non è il contorno (la musica), bensì la pietanza ( lo spettacolo). Qual è, allora la pietanza di questo Festival delle meraviglie con ascolti al 55% di share? Se c’è un filo sembra essere la ricorsa degli autori alla political correctness, offerta in tutte le salse possibili nell’immaginario della dirigenza Rai.

Così ci muoviamo dalla massima cura al protocollo di genere, affermata con l’abolizione, tra le presentatrici, di tutto ciò che può evocare richiami di sensualità nel pubblico maschile, alle dichiarazioni antirazzista e antimafia con Lorena Cesarini e Roberto Saviano, alla filosofia lgbt, largamente profusa. Diremmo addirittura caratterizzante, quest’ultima, a partire dalle presenze dichiaratamente ed ostentatamente fluide di alcuni cantanti.

Primo fra tutti quel tale che si fa chiamare come un vecchio leader napoletano del partito monarchico e che gabella come novità assoluta il look e le facce storte che Billy Idol faceva trent’anni fa, narrate con urticante ironia ( con retrogusto morale) da Checco Zalone e consacrate dalla co-presentatrice drag queen Drusilla e, infine, istituzionalizzate dal bacio appassionato di Fiorello al direttore di rete. Va tutto bene: sublime l’Osservatore Romano che dice alla blasfemia da due soldi del succitato omonimo napoletano che è roba vecchia e che meglio sapeva fare la buonanima di David Bowie, meno sublime la protesta di un gruppo integralisti che ha piazzato un camper tutto illustrato da anatemi contro il performer canterino.

Al servizio pubblico domando: è questo che intendiamo quando parliamo di tv come arte e spettacolo proiettate verso la formazione? Nessuno scandalo, per carità: solo per mia memoria rammento che nel 1995 su quel palco la divina e già citata Lennox giunse attorniata da ballerini queer in tutù e movenze inequivocabili e, d’altro canto, la storia dell’en travesti nello spettacolo ha una sua nobiltà, pescando esempi nella cultura del Kabarett tedesco degli anni venti e trenta del novecento.

Magari, però, il Kabarett uno se lo andava a cercare pagando il biglietto e la performance della Lennox era leggera, tre minuti e via. Dice: abbiamo fatto il 55% dello share. Benissimo, complimenti. Ma c’era alternativa, quando ogni nano-millimetro dello spazio Rai da mane a sera rimanda ogni cinque minuti all’evento?

Perché, si sa, Sanremo è Sanremo…

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