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La questione polacca e l’uso politico dei diritti fondamentali

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Una sentenza della Corte europea compie un altro passo verso la soggettivizzazione politica della Ue, ma al prezzo di trasformare i diritti fondamentali in “cosa commerciabile”. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law nel corso di laurea in Digital Marketing dell’università di Chieti-Pescara

La sentenza della Corte Ue che conferma la validità del principio “fondi in cambio del rispetto del primato della legge” è un’ulteriore manovra della controffensiva comunitaria contro la ribellione costituzionale polacca.

In modo meno diretto ma esplicito, tuttavia, questa decisione afferma l’autonomia dell’Unione sugli Stati membri e rinforza il concetto che i diritti fondamentali siano uno strumento di (geo)politica. Il principio di diritto espresso dalla Corte giocherà un ruolo anche nella difficile partita fra Ue e Usa sulla sovranità tecnologica e digitale.

Il nodo irrisolto della Costituzione europea e della soggettività politico-giuridica dell’Unione

Il comunicato stampa della Corte è adamantino nell’affermare che alla base della decisione c’è la tutela dell’ordine pubblico economico dell’Unione.

Questo significa due cose: la prima è che, nonostante l’obiettivo dichiarato di proteggere tutti i sottoscrittori del Trattato Ue, l’Unione europea rivendica un interesse proprio, distinto da quello degli Stati membri. La seconda che, di fatto e in conseguenza, la Ue rivendica una soggettività politica autonoma e superiore alle Costituzioni nazionali.

Che questo passaggio, come dimostrano da ultimo le crisi ucraine ed energetica, sia irrinunciabile è fuori discussione. Tuttavia, creare una situazione di fatto alla quale non corrisponde una regolamentazione di diritto può funzionare fino a un certo punto. Quando, infatti, le strategie comunitarie implicano una lesione degli interessi nazionali dei singoli membri, questi hanno tutto il diritto (nel senso tecnico della parola) di opporsi persino alle decisioni della Corte di giustizia.

Una decisione del genere, a livello nazionale, non potrebbe essere presa a cuor leggero. Tuttavia, per tornare al dossier ungaro-polacco, rimane il fatto che nel contrasto fra i due Paesi e la Ue non è ancora stata espressamente eccepita, appunto, la subordinazione della Ue agli interessi dei propri componenti.

Solo l’approvazione di una Costituzione europea, la cui approvazione Francia e Olanda hanno bloccato sul nascere, consentirebbe di superare l’empasse conferendo così legittimazione politica e giuridica all’Unione. Fino a quel momento, però, parlare di “interesse comunitario”, “confini europei” e “difesa comune” rimane un esercizio politico ad efficacia molto limitata.

La negoziabilità politica dei diritti fondamentali

Il comunicato stampa della Corte afferma chiaramente che “un ‘meccanismo di condizionalità’ orizzontale, come quello istituito dal regolamento, che subordina il beneficio di finanziamenti provenienti dal bilancio dell’Unione al rispetto da parte di uno Stato membro dei principi dello Stato di diritto, può rientrare nella competenza, conferita dai Trattati all’Unione, di stabilire ‘regole finanziarie’ relative all’esecuzione del bilancio dell’Unione”.

Letta fra le righe, tuttavia, la sentenza suggerisce discretamente che il principio del rule of law, secondo il quale nessuno è al di sopra della legge, possa in realtà diventare un oggetto di contrattazione politica fra la Ue e gli Stati membri.

La contraddizione di questo approccio è evidente. In un sistema giuridico democratico non esiste “contrattazione” sui diritti fondamentali e sul primato della legge. Essi operano in modo binario: o si rispettano, o non si rispettano e, dunque, o dentro, o fuori il perimetro comunitario.

Nei mari tempestosi della politica, tuttavia, non è possibile seguire una rotta così lineare.  Così ci troviamo di fronte al passaggio da una visione basata sulla non negoziabilità dei diritti fondamentali a una basata sul loro uso (geo)politico per costruire di fatto una soggettività autonoma della Ue, mantenere l’unità interna e giocare un ruolo nei rapporti internazionali.

L’uso (geo)politico dei diritti fondamentali e il ruolo delle tecnologie dell’informazione

Il limbo di soggettività nel quale si trova l’Unione la rende evidentemente incapace di negoziare alla pari con le altre potenze nazionali. Qualsiasi decisione basata, per esempio, sull’applicazione di sanzioni economiche o giudiziarie e sull’ impiego di soluzioni cinetiche richiede necessariamente l’accordo degli Stati membri. L’unico strumento che si sottrae a queste Forche Caudine è il diritto, nel senso astratto del termine. Da tempo, infatti, la Ue utilizza la propria potestà normativa delegata (delegata, non trasferita) come strumento di negoziazione non solo verso Paesi non-amici ma anche verso quelli non-nemici.

L’esempio più rilevante è il modo in cui le istituzioni comunitarie stanno usando la normativa sulla protezione dei dati personali per costruire una sovranità tecnologica autonoma rispetto sia alla Cina, ma anche rispetto agli Usa.

L’entrata in vigore del Reg. 679/16 (il “GDPR”) ha infatti avviato un’interazione politica fra Ue e Usa molto complessa che ha paradossalmente visto la Commissione assumere posizioni contrastanti rispetto a quelle della Corte di giustizia e a quelle dello European Data Protection Supervisor.

Le sentenze Schrems I e Schrems II hanno sostanzialmente invalidato i meccanismi per lo scambio di dati personali con gli Usa. Lo scorso 27 maggio 2021 il Garante europeo ha avviato un’indagine sui servizi cloud erogati dalle Big Tech americane, poi seguita da una più recente iniziativa di 22 autorità nazionali di protezione dei dati. Inoltre, le autorità nazionali austriache, tedesche e francesi hanno messo fuori legge (per ora solo) alcuni servizi erogati da Google.

La reazione americana è stata “fare causa” al Garante europeo contestandone il modo in cui esercita i propri poteri e ventilare in modo discreto ma fermo la possibilità di non essere più in grado di operare in Europa. Nello stesso tempo, accelerano gli investimenti strutturali delle Big Tech all’interno dei confini europei, come per esempio nel caso del cloud nazionale italiano.

Conclusioni

È ancora presto per capire cosa accadrà in questo scenario ma è certo che il tema del rapporto fra politica, economia e diritti sia un elemento centrale in una soluzione di sistema.

Il filo rosso che lega le politiche economiche comunitarie, la ribellione ungaro-polacca (ma anche tedesca)  il ruolo dell’agnello sacrificale sull’altare della trattativa è ricoperto dai diritti fondamentali.

Sulla carta, infatti, se ne afferma l’intangibilità ma, nei fatti, operazioni di legal engineering progettano e costruiscono testi come le “Standard Contractual Clauses” per il trasferimento di dati che salvano l’apparenza ma non rispettano la sostanza della tutela dei diritti.

Il tema non è, evidentemente, stigmatizzare la poca eticità di un approccio del genere perché nelle relazioni politiche internazionali non è questo il punto. La necessità di una mediazione è l’essenza di qualsiasi interazione non apertamente conflittuale fra due entità plenipotenziarie. Dunque, pur se non apertamente, il rule of law diventa rule by law e i diritti entrano nell’elenco dei beni politicamente disponibili. Il tema non è, in altri termini il “se” ma il “in che misura” sono negoziabili.

Percorrere questa strada può essere inevitabile, ma — come in una via ferrata estrema — bisogna essere estremamente consapevoli di quello che si sta facendo, e della irreparabilità delle conseguenze in caso di errore.

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