Fra i primi destinatari potrebbero esserci i protagonisti dell’industria Big Tech, nell’ambito delle sanzioni reciproche applicate per la crisi ucraina. L’intervento di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law nel Corso di laurea in Digital Marketing nell’università di Chieti-Pescara
Forse nell’ambito di una strategia globale pianificata in anticipo e diretta a gestire le conseguenze della crisi ucraina, la Russia ha da poco annunciato, tramite la propria autorità regolatoria (Roskomnadzor) che dalla fine di febbraio 2022 valuterà se sanzionare le società straniere che hanno violato la legge federale 236-FZ.
Questa legge impone a siti stranieri di carattere informativo e ai social network che hanno un accesso superiore a 500.000 utenti russi al giorno l’obbligo di aprire una filiale in Russia e iscriversi a uno specifico registro.
La scelta ha provocato la reazione degli attivisti per i diritti civili. Il gruppo Roskomsvoboda ha denunciato il rischio che la legge (e la sua applicazione) siano un modo per prendere indirettamente in ostaggio le aziende straniere che rifiutano la cooperazione con le autorità russe.
Un quadro normativo in apparenza coerente con quello comunitario
Astrattamente, in realtà, le scelte normative di Mosca non sono così diverse da quelle assunte in ambito europeo e italiano. Il Regolamento sulla protezione dei dati personali già impone ai soggetti extracomunitari di individuare un referente stabilito all’interno dell’Unione, il Codice europeo delle comunicazioni elettroniche appena entrato in vigore (ma anche quello che ha sostituito) richiede che chi voglia offrire servizi in Italia debba essere autorizzato dal Mise, iscritto al Registro degli operatori di comunicazione (Roc) e dotato di apparati localizzati in Italia per l’erogazione delle prestazioni obbligatorie (intercettazioni e blocco di traffico internet). Infine, suscitando preoccupazioni nelle aziende non europee, il Digital Service Act prossimo venturo, sul quale è in corso una serrata attività di mediazione politica, imporrà ai soggetti stranieri che operano nella Ue di individuare un “rappresentante legale” né più né meno in base allo stesso principio adottato dalla Duma.
Le insidie della scelta regolamentare russa
Limitandosi all’aspetto puramente giuridico e regolamentare, dunque, non sembrerebbe esserci nulla di strano o di inaccettabile nella scelta russa di adottare un approccio normativo che è del tutto standard nel settore dell’industria delle tecnologie dell’informazione. Tuttavia, a rischio di cadere nella fallacia del post hoc, è quantomeno singolare che l’annuncio arrivi poco prima dell’escalation ucraina e delle prevedibili sanzioni che il blocco occidentale avrebbe certamente imposto in ritorsione.
Attualmente, rilevano gli attivisti di Roskomsvoboda, nella lista delle aziende che hanno completato il processo di adeguamento ci sono già Apple e Spotify, che si sono aggiunti ad Aliexpress (già presente con una sussidiaria). TikTok, Likeme, Zoom e Viber hanno dato segni di valutare se muoversi in questa direzione. Ad oggi, invece, Google, Facebook, Telegram, Discord, Pinterest e Twitch non risultano ancora registrate.
Scaduto il termine di grazia concesso dal Roskomnadzor la Russia avrebbe dunque pieno titolo, da un lato, per bloccare l’operatività all’interno dei propri confini delle società che non hanno rispettato la legge 236 e, dall’altro, di rendere la vita difficile a quelle che lo hanno fatto, applicando in modo rigoroso gli estesi poteri attribuiti alle autorità e all’intelligence. Questo potrebbe causare danni molto consistenti all’industria tecnologica americana.
Il convitato di pietra è l’uso strategico del diritto
Solo il tempo dirà se, effettivamente, anche la legge 236 verrà inclusa nell’arsenale a sostegno delle strategie geopolitiche antioccidentali. Rimane, tuttavia, il fatto che in ogni crisi internazionale diventa sempre più sottile il velo che distingue il diritto come sistema di principi universali dalle necessità politiche di lungo e brevissimo periodo e dunque il rule of law dal rule by law.
La lawfare — l’uso strategico del diritto — ha creato un nuovo dominio nell’escalation delle crisi internazionali che richiede operatori in grado di combattere non con i M4 e i computer, ma con quelle le armi della logica giuridica, del diritto internazionale e di quello dell’economia.
Questa consapevolezza è molto evidente nel blocco orientale, molto meno in quello occidentale dove una visione para-religiosa dei diritti impedisce di riconoscere apertamente il mutamento nella funzione delle regole giuridiche.
L’invocazione della “violazione dei diritti umani” o del “diritto internazionale” come sostegno a operazioni militari all’interno di Paesi sovrani allo scopo di raggiungere, in realtà, obiettivi geopolitici diventa sempre più una sorta di formalità priva di reale consistenza, alla quale è sempre meno facile dare credito sostanziale. Siamo di fronte, in altri termini, alle conseguenze dell’indebolimento della legalità internazionale come effettivo strumento per la coesistenza pacifica fra Paesi e dunque come argine ad azioni di destabilizzazione.
Come è stato osservato in relazione alla conseguenze delle scelte di public policy nella gestione internazionale della pandemia, ma con un valore più generale, “The probability of a second wave of the virus ought to give us pause to consider whether, in our pursuit of materialism and consumerism, we may have lost sight of some of the more enduring and essential values of democratic freedom and the rule of law.”