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Tangentopoli, canta Mario Merola

Trent’anni da Mani Pulite, da una politica che sembrò non comprendere quel che stava accadendo, e si affidò alle reazioni caratteriali dei suoi leader senza produrre una riflessione condivisa. Pubblichiamo un estratto dal volume “La politica come mestiere. Non-manuale per carriere, militanze e cittadinanza”, firmato da Pino Pisicchio ed edito da Rubbettino

Nel 1994 un popolare cantante melodico napoletano, re delle sceneggiate e aedo di certi settori dell’elite carceraria a Poggioreale, Mario Merola, pubblicò un album (all’epoca un vinile a 33 giri) dal titolo emblematico: “Tangentopoli” che apriva con la canzone omonima (di P. Giordano e E. Alfieri, Ed. Edisor, durata 3’42) una raccolta contenente otto brani.

Certamente non mancava al cantante napoletano, la cui fisicità da guappo d’antan si raccordava felicemente con le sue sceneggiate, quella rapinosa capacità di restituire in prodotto canzonettistico ciò che andava annusando nell’aria. E Tangentopoli era l’aria in quel periodo alla metà dell’ultimo decennio del secolo XX.

Si chiamava anche “Mani pulite”, dal nome attribuito dal pool dei magistrati della procura di Milano all’inchiesta su episodi di corruzione, esplosi nel mondo della politica, dell’imprenditoria e delle istituzioni municipali del capoluogo lombardo, che diede la stura ad un’azione reticolare di altre procure giudiziarie italiane impegnate a contrastare quello che fu definito un vero e proprio sistema fraudolento che prosperava all’ombra della politica.

Venne ribattezzata con notorietà planetaria “Tangentopoli” da qualche giornalista costruttore di neologismi che però non si è mai presentato a riscuotere il prezzo di tanto successo. Anche se denuncia una grottesca assonanza col nome della città dei paperi inventata da Walt Disney, il nome evoca una pagina oscura e controversa della nostra Repubblica, dalla distanza storica ancora insufficiente a creare la necessaria prospettiva uscita dalla narrazione quasi cronachistica di una successione di eventi che ha cambiato radicalmente la politica italiana influendo in modo decisivo anche sulla forma-partito e sulla forma di governo.

La scintilla venne accesa da un episodio, ormai celeberrimo, ma in apparenza minore, di malaffare che vide protagonista il socialista milanese Mario Chiesa, amministratore del Pio Albergo Trivulzio, colto in flagranza di reato mentre intascava dall’imprenditore Luca Magni una tangente – che avrebbe rappresentato il sinallagma pagato per eseguire lavori nell’hospice – a seguito di un’indagine avviata nel 1991 dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro.

Era il 17 febbraio del 1992 e l’evento ebbe una deflagrazione mediatica molto forte in grado di cogliere un sentiment di disagio nella pubblica opinione e di disincanto nei confronti della politica anche a causa di una crisi recessiva che attraversava la società italiana.

La successione degli eventi raccontò dell’allargamento delle azioni giudiziarie contro il sistema dei partiti ed i maggiori leader di governo a tutte le più importanti procure italiane, anche con un certo spirito emulativo alla ricerca dei riflettori, tanto da far commentare negativamente dallo stesso Di Pietro l’avvio di azioni giudiziarie senza adeguato sostegno probatorio.

Decisivo si rivelò l’appoggio incondizionato fornito alla magistratura dal sistema dei media, a partire dalla carta stampata, ancora protagonista principale nell’orientamento dell’opinione politica, e dalla televisione, pubblica e privata, avviata ad assumere un ruolo egemone nell’informazione, anche in forza dell’immediatezza che la caratterizzava: venivano istallate redazioni volanti davanti ai maggiori tribunali italiani per raccontare in diretta, con un insistito voyeurismo da rotocalco per antiche massaie, l’arresto del politico di turno.

La politica sembrò non comprendere quel che stava accadendo, e si affidò alle reazioni caratteriali dei suoi leader senza produrre una riflessione condivisa in grado di imbastire risposte convincenti alla domanda che emergeva dalla società italiana. La questione, che pure aveva investito l’intero sistema dei partiti, travolgeva in modo particolare le forze di governo, e tra queste la Dc e il Psi, che risposero, però, in modo diverso alla drammaticità del momento: nella Dc si scelse prevalentemente il tono basso ed elusivo, nell’errata prospettiva che sarebbe passata anche questa nottata senza recare danni irreversibili.

Nel Psi la personalità egemone di Craxi e la sua caratterialità orgogliosa e scorbutica scelsero la strada dello scontro diretto con gli oppositori e con la pubblica opinione, anche attraverso il famoso discorso fatto il 3 luglio 1992 alla Camera dei Deputati in occasione della discussione sulle dichiarazioni programmatiche di Giuliano Amato, Presidente del Consiglio dei Ministri, con la chiamata di correo di tutti i leader di partito presenti in aula nella commissione del reato di finanziamento irregolare alla politica.

Discorso giudicato al tempo stesso politicamente scorretto e coraggioso che certamente toccava con brusca chiarezza il tema del rapporto tra politica e denaro. Sarebbe toccato a Craxi rappresentare simbolicamente il crollo di un’intera classe dirigente politica della cosiddetta Prima Repubblica (altro concetto di nuovo conio giornalistico prodotto in quegli anni) con l’episodio del lancio delle monetine davanti all’Hotel Raphael dove alloggiava, nel centro storico di Roma, tra piazza Navona e via dei Coronari. Era il 30 aprile del 1993 e da allora niente più sarebbe stato come prima.


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