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La truffatrice di Manhattan. I simboli di un’epoca

Quando si è sopraffatti dalla propria fame di attenzione chi truffa chi? Nella seconda parte dell’analisi di Chiara Buoncristiani uno sguardo sulla serie che narra la storia di Anna Sorokina, una ragazza di 25 anni, immigrata russa, che è riuscita a vivere truffando il jet set di Manhattan

In un mondo in cui non conta chi sei ma quanti follower hai, le tecniche “illusionistiche” sono alla portata di tutti. Sono la lingua che parliamo. Sono il modo in cui restiamo sospesi tra la menzogna e la sana creazione di noi stessi.

E proprio su questo si concentra “Inventing Anna”, la fiction firmata Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy, Le regole del delitto perfetto, Bridgerton) lanciata da Netflix e tutta dedicata alla storia di Anna Sorokina. Fingendo di chiamarsi Anna Delvey e di essere una ricca ereditiera tedesca, questa ragazza di 25 anni, immigrata russa, è riuscita a vivere a scrocco nel posto che esclude e “separa” i poveri dai ricchi: Manhattan.

Gallerie d’arte, alta finanza, alberghi a sei stelle: non c’è luogo scintillante ed esclusivo della Grande Mela che non sia cascato nel bluff di Anna. A ben guardare la ragazza ha usato la stessa tecnica di Shimon Hayut, il truffatore di Tinder: usare l’apparente ricchezza per far sentire le persone intorno a lei “speciali”, per il solo fatto di ricevere la sua attenzione, inondando conoscenti e amici di regali, per poi farsi prestare decine di milioni di dollari dagli investitori. Durante il processo vediamo sfilare le vittime alla sbarra e il loro volto è sempre velato di un grande imbarazzo… come se si vergognassero di qualcosa di molto particolare. Come se lo stesso virus avesse contagiato sia loro che Anna.

Così, se nel caso di Shimon gli autori del documentario restano sul bordo della denuncia e della condanna morale nei confronti del truffatore, nella serie la Rhimes fa un passo in più. Ricostruisce il passato della giovane, non cadendo nella trappola di giustificarne l’operato con un’infanzia difficile o cattivi genitori. Anna ha fatto la difficile esperienza di essere un’immigrata russa povera nella chiusa provincia tedesca, è stata traumatizzata da un ambiente escludente ma ha trovato presto il modo per rovesciare i ruoli.

Anna si è identificata con l’aggressore (le compagne di scuola che la prendono in giro e non le parlano per il suo abbigliamento). Lo ha fatto talmente bene da diventare lei stessa una bulla in grado di far sentire “brutte e sciatte” le compagne meno eleganti di lei. Da lì in poi la strada per conquistare i circoli esclusivi di New York è segnata. Tutte e tutti ci cadono, si fanno offrire cene e jet privati per poi concedere prestiti elevatissimi, il tutto per sentirsi speciali almeno quanto Anna, colei che da esclusa sa bene quali tasti toccare per suscitare precisi bisogni e attirare a sé persone che più di tutto le chiedono di brillare con lei. La luce resta luce anche se è riflessa. Ma il costo che si paga può essere molto alto e i ruoli tra vittima e carnefice possono continuare a scambiarsi.

La serie, infatti, finisce con Vivian, la giornalista che ha raccontato la storia di Anna, che ha fatto carriera grazie alla fama scaturita dall’articolo sulla finta ereditiera. La reporter aveva convinto la ragazza a raccontarle la propria incredibile storia promettendole notorietà mondiale. Così Anna la truffatrice, anche lei, ci era caduta, sedotta dal suo stesso trucco.

Vivian poi ha un momento di lucidità: si rende conto che se Anna è finita in carcere è a causa dell’attenzione mediatica suscitata verso il processo dal suo articolo. È allora che capisce. Parlando con l’avvocato di Anna, anche lui diventato più ricco e famoso grazie a questa storia, sono stravolti da un dubbio. È come se si chiedessero: abbiamo usato anche noi Anna per strappare l’attenzione di cui avevamo bisogno?

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