Skip to main content

Ue al verde. Guida ragionata alla tassonomia

Dal gas al nucleare, dall’eolico all’idroelettrico. La tassonomia Ue ha convinto molti e spiazzato tanti altri. Ora invece di fantasticare sul futuro ragioniamo su una soluzione (concreta) per il breve-medio periodo. Il commento di Erasmo D’Angelis

L’Unione Europea? Nell’ora più nera, con la necessità di affrontare l’emergenza “pandemia climatica” che apre e lascia ferite che si aggravano in ogni Paese Ue anche più profonde e durature della pandemia sanitaria, l’Europa di Bruxelles è alla canna del gas e appesa alla querelle stile anni Ottanta “nucleare sì-nucleare no”.

Sarebbe l’ora di concentrarsi sui piani e i cantieri greeen supportati dagli ingentissimi investimenti per raggiungere l’ambiziosissima neutralità carbonica nel 2050 passando dall’obiettivo middle term della riduzione al 2030 del 55% di emissioni killer complessive dell’Unione rispetto ai valori del 1990, di mettere “a terra”, come si usa dire, le transizioni energetiche ed ecologiche nei paesi membri, a iniziare dal nostro che è il più beneficiato. Invece, siamo al pasticcio delle ambiguità sulla “Tassonomia”.

Che sarà mai la “Tassonomia”? La parola, il cui significato è ignoto agli europei, è il nuovo campo di battaglia che impegna una ristrettissima cerchia di superesperti in materia energetica e le alte burocrazie di Bruxelles e dei paesi membri e ovviamente i manager delle industrie del settore.

Questa parolina magica racchiude di fatto la nuova politica energetica del continente, indicando la Taxonomy for sustainable activities, quel sistema di classificazione che definisce la lista delle attività ambientalmente sostenibili. Conterrà l’elenco delle fonti energetiche definite non climalteranti e dunque considerate sostenibili, da sottoporre al voto del Consiglio e del Parlamento europeo per destinare i robusti sostegni finanziari.

Fin dalla prima bozza inviata dalla Commissione europea agli Stati membri il 31 dicembre scorso però, l’elenco ha diviso trasversalmente tutti gli schieramenti e quasi tutti i gruppi politici, ed è stata oggetto del fuoco incrociato dei governi nazionali che il 12 gennaio hanno presentato le loro scelte energetiche.

Nel mirino sono finite due clamorose inclusioni nei mega-finanziamenti green: la prima riguarda il gas naturale, la fonte fossile considerata di transizione verso il green, e la seconda è il casus belli dell’energia nucleare che non emettendo gas serra viene considerata tout court un investimento ambientalmente compatibile e da sostenere pompando centinaia di miliardi della transizione ecologica.

La Commissione alla fine ha detto sì, anzi un clamoroso doppio sì. La sua proposta di “tassonomia” presentata quattro giorni fa ha classificato gas e nucleare come scelte “sostenibili” e “coerenti” con il percorso di transizione ecologica, e dunque meritevoli di ricevere investimenti “verdi”, anche se ad alcune condizioni. Una svolta clamorosa. Ed è già bagarre paralizzante a meno di colpi di scena.

Germania, Austria, Spagna e Lussemburgo guidano il fronte dei no ritenendo il gas per quello che è, cioè una fonte fossile e dunque né verde né sostenibile, forti anche delle perplessità espresse dagli stessi consulenti della Commissione che mettono in guardia l’europarlamento dall’inserimento poiché potrebbe generare un aumento di emissioni incentivando la costruzione di nuove centrali a gas; e ritenendo il vecchio nucleare di fissione del tutto inadatto per due grossi scogli al momento e nel prossimo futuro insuperabili: la produzione di combustibile nucleare residuo con scorie radioattive non smaltibili e i rischi di disastri irreparabili.

Il blocco filo-gas e filo-nucleare è invece guidato da Francia, Finlandia e Repubblica ceca. Capofila dei Si Nuke-Si Gas è la Francia leader nella produzione di energia atomica con 19 centrali elettronucleari attive nelle quali sono attivi 58 reattori. Altri 12 reattiri francesi sono in shutdown permanente, ma il nucleare garantisce due terzi di produzione elettrica nazionale, in quita parte venduta anche a noi.

In queste ore si preparano ricorsi e denunce a colpi di carte bollate. La ministra dell’Ambiente austriaca Leonore Gewessler, ha già dato appuntamento alla Commissione a Bruxelles, davanti alla Corte di giustizia europea. Su fronte ricorsi si attestano anche il Lussemburgo e soprattutto la Germania del nuovo governo Scholz con dentro i Verdi che si è data obiettivi climatici più sfidanti di quelli previsti dall’Unione, e nella corsa green ha deciso non solo di azzerare la produzione di energia atomica chiudendo entro il 2022 le tre centrali tedesche ancora in esercizio – delle 17 che aveva prima della catastrofe di Fukushima -, ma di chiudere entro il 2030 anche tutte le sue centrali a carbone.

Ma quali impatti ed effetti a cascata rischiano di essere innescati dalla riformulazione della tassonomia Ue? Primo, sulla credibilità della svolta green impressa dalla Commissione, che dimostrerebbe una scarsa convinzione dei piani iniziali. Secondo, sulla credibilità della stessa “tassonomia verde” che alla fine potrebbe indicare ogni fonte energetica come “green”, eccetto il carbone.

Terzo, il trasferimento di una grossa fetta di investimenti inizialmente previsti per le rinnovabili su una fonte fossile e su una fonte molto futuribile e dall’incerta disponibilità di centrali nucleari cosiddette di quarta generazione.

Quattro, l’elenco garantirebbe ancora a lungo la ricca filiera degli hub delle industrie di componenti delle rinnovabili fuori dall’Europa, soprattutto in Asia, facendo perdere forza al reshoring con rIlocalizzazioni e aperture nei  nostri paesi continentali di fabbriche per componenti nel virtuoso mix con tanta occupazione, e quanto siano necessarie nuove filiere nazionali lo dimostra anche l’Italia, che dovrà balzare nel 2030 dal 38% attuale al 70% di energia pulita prodotta installando un numero impressionante di impianti.

Chi sostiene nucleare e gas, motiva la scelta con la poca “stabilità” delle fonti rinnovabili. Lo scorso anno gas e nucleare hanno rappresentato rispettivamente il 25% e il 20% della produzione di energia nell’Unione. Però è anche vero che oggi chi punta con decisione sulle rinnovabili, come Germania o California, punta contemporaneamente anche su sistemi e tecnologie di accumulo e stoccaggio di energia stagionale, per poterla usare quando serve.

Questa è la strada per un Green Deal europeo clamorosa e doveroso che dovrà garantire, al 2030, il taglio netto del 55% di emissioni. Per capire l’accelerazione necessaria, torniamo ancora all’Italia: se nel 2019 le nostre emissioni di anidride carbonica sono state del 19,2% inferiori a quelle emesse nel 1990, dobbiamo oggi moltiplicare per 7 la potenza verde installata.

I fondi del Pnrr sono ingenti, e ci sono occasioni da cogliere al volo mai viste, anche sul fronte dell’efficienza energetica e della produzione di nuovi sistemi di stoccaggio delle rinnovabili. I superbonus edilizi danno i primi buoni risultati con 18,3 miliardi ammessi a detrazione a fine gennaio 2022, per il 48% a condomini con 93.000 nuovi impianti fotovoltaici installati. La transizione del settore automotive e lo sviluppo di infrastrutture di ricarica privatedeve essere avviata e una Gigafactory di batterie per le auto elettriche è stata annunciata a Termoli dall’ad di Stellantis, Carlos Tavares.

I target europei di riduzione di gas killer dell’atmosfera, in un contesto climatico che sta producendo rischi catastrofali sempre più estremi con perdite di vite umane e danni economici ingenti, impattano in contesti nazionali oggi altamente energivori, ma l’obiettivo “zero emissioni” al 2050 ha unito tutti e deve contribuire al calo globale riducendo la quota di anidride carbonica emessa nella UE dell’8%, rispetto al totale mondiale.

Il pacchetto clima-emergia lanciato a luglio scorso dalla Commissione, il “Fit for 55”, deve riuscire a ridurre del 55% le emissioni di gas serra già entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, come deciso con l’European Green Deal con i clamorosi investimenti per accelerare la de-carbonizzazione.

Nel Recovery Plan e del Green Deal Europa ci sono 1000 miliardi di euro, in grado di svilupparne 3000. E nuovi target, come la riduzione del 100% le emissioni delle auto immatricolate dal 2035, sono un segnale chiaro e inevitabile della strada da percorrere con decisione. Altro che addebitare i rincari in bolletta ai costi presunti della svolta verso le rinnovabili, e non piuttosto ai ritardi degli investimenti sulle rinnovabili e all’eccessiva dipendenza da fonti fossili, come rileva anche il vicepresidente della Commissione Europea Frans Timmermans.

E allora? Invece di alimentare dibattiti senza vie d’uscita a breve e medio termine sul nucleare “pulito” e da fusione e non da fissione, con i nuovi reattori al centro di programmi di ricerca da mezzo secolo ma senza grandi risultati sullo smaltimento delle scorie e sulla sicurezza, e con il gas che pur sempre è una fonte fossile che contribuisce alle emissioni di anidride carbonica, sarebbe meglio concentrarsi sull’oggi e sui tempi medi.

La legislazione europea prevede, anche nella tassonomia, il rispetto del principio Dnsh “do no significant harm”, non produrre danni alla mitigazione e all’adattamento al cambiamento climatico, alla protezione delle risorse e degli ecosistemi naturali, alla riduzione dell’inquinamento e alla promozione dell’economia circolare. E in Italia è possibile con il Pnrr spingere sulle tecnologie mature e competitive da fonti rinnovabili a portata di mano, agevolando prima possibile iter e valutazioni e semplificazioni delle procedure autorizzative e mettendo tante nostre aziende nelle condizioni di poter investire accelerando subito sul taglio delle emissioni.

L’Italia nello scontro europeo è piuttosto defilata, ma è molto interessata all’inclusione del gas tra le fonti “sostenibili” e, anche se al momento i parametri indicati escluderebbero dai finanziamenti i nostri impianti sul gas, all’orizzonte c’è la costruzione di un nuovo parco di centrali a ciclo combinato alimentate a gas naturale. Sono oggi 110 le infrastrutture a gas, con 48 nuove costruzioni o ampliamenti di centrali, e poi metanodotti, depositi, rigassificatori, con nuove richieste sul fronte delle estrazioni di idrocarburi, in valutazione al Ministero della Transizione Ecologica.

Le nostre centrali in ampliamento o di nuova costruzione per 11 GW di nuova capacità, costo 11 miliardi di euro che si aggiungono ai 4,2 miliardi destinati alla realizzazione di 1.239 nuovi km di metanodotti alcune aree, sono giustificate dalla necessità della copertura degli oltre 7.900 MW prodotti dalle nostre centrali ancora a carbone con il phase out. Potrebbe riuscirci però anche l’idroelettrico.

I proponenti – Eni, Enel, A2A, Sorgenia, Edison, Engie – sono le stesse aziende che stanno spingendo forte sulla nostra transizione energetica che punta su rinnovabili, stoccaggi, accumulatori, idrogeno verde. Tutta la filiera sa bene però che superare i due secchi no degli italiani ai due referendum sul nucleare è una mission impossible.



×

Iscriviti alla newsletter