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Biden, l’Ucraina e i tamburi di guerra al Congresso

Di David Unger

Un partito democratico alle prese con le (solite) spinte interventiste. Un partito repubblicano a fare i conti con l’imbarazzante eredità trumpiana. In mezzo il presidente Joe Biden, e la fatica di navigare la crisi ucraina. Il commento del prof. David Unger (Johns Hopkins)

Per gli Stati Uniti mettere a punto una politica costruttiva in risposta alla crisi pericolosa e volatile innescata dall’invasione russa dell’Ucrsina è una sfida enorme e difficile. Navigarla tra le sponde di parte della politica democratica è altrettanto arduo.

Il presidente Joe Biden e il Segretario di Stato Antony Blinken sono entrati in carica portandosi dietro un grande bagaglio di esperienza in politica estera. Biden, insieme a Blinken nella veste di consigliere, è stato un coscenzioso presidente del Comitato per le relazioni estere del Senato prima di diventare vicepresidente e in seguito ha avuto voce in capitolo in decisioni chiave della politica estera durante l’amministrazione Obama.

Il presidente ha studiato e sostenuto a lungo il controllo delle armi nucleari e capisce più di tanti altri come l’arsenale nucleare russo e la minaccia di Putin di usarlo cambino i calcoli. Questo retroterra ha finora guidato la risposta dell’amministrazione Biden alla crisi ucraina, inclusa la sua opposizione alla richiesta di Zelensky di una no-fly zone della Nato e la proposta della Polonia di un triangolo di scambi di jet militari.

Per fortuna però, a volte per sfortuna, il presidente americano non è in grado di prendere le redini della politica estera quando si trova di fronte a un vuoto politico. Deve stare al passo con l’opinione pubblica o rischiare di esserne travolto. Harry Truman lo ha imparato con la Cina, poi con la Corea. Lyndon Johnson e poi Richard Nixon l’hanno imparato davanti al Vietnam. George W. Bush in Iraq, Barack Obama l’ha imparato in Siria e Libia.

Cosa pensa oggi dunque l’opinione pubblica americana? Non abbiamo un modo diretto di sapere come gli americani comuni risponderebbero a uno scontro reale tra le forze americane e russe. Tutto ciò che possiamo fare è cercare di decifrare il possibile dai commenti pubblici dei principali politici e intellettuali di entrambi i lati del Congresso e di tutto lo spettro politico (e non sempre le due cose coincidono).

I repubblicani, come partito di opposizione, hanno il comprensibile istinto di opporsi. Anche se questo, va da sé, significa dimenticare tutte le parole al miele che il loro ex leader Donald Trump ha dedicato a Vladimir Putin e alle sue presunte, benevole intenzioni.

A parte l’imbarazzante eredità di Trump, i repubblicani hanno molto su cui lavorare e tanto da cui imparare. I decenni di Guerra fredda in cui agli americani è stato insegnato a diffidare e temere i russi, i filmati televisivi di grande carica emotiva che immortalano morte e devastazione in Ucraina, il fascino carismatico del presidente ucraino Zelensky, l’ingenua convinzione americana (nonostante ripetute e dolorose prove del contrario) che il potere militare ed economico del Paese sia sufficiente a fermare ogni aggressione o bandire ogni abuso dei diritti umani, nella malriposta consapevolezza che, se il male persiste, deve essere colpa di un presidente americano che non ha fatto tutto ciò che poteva per fermarlo.

Sarebbe un errore pensare che solo i repubblicani abbiano o esprimano questa mentalità. Nel corso della maggior parte della storia moderna americana, i democratici sono stati di solito la mente più interventista dei due partiti, specialmente quando erano coinvolti interessi americani di secondo ordine e non vitali.

L’amministrazione Biden ha dato finora prova di ammirevole fermezza e disciplina. Ma vale la pena notare che il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e la specialista europea del Dipartimento di Stato Victoria Nuland provengono dall’ala interventista del Partito Democratico, quella di Hillary Clinton. E la passata e forse futura promessa presidenziale, la senatrice Amy Klobuchar, si è già espressa sonoramente in questa direzione.

Forse per questo Biden, dovendo dire di no alle no-fly zone e ai Mig polacchi, sente il bisogno di bilanciare altrove con una retorica bellica, come quando chiama Putin “un criminale di guerra” o avverte duramente Xi Jinping. L’escalation retorica, di per sé, può diventare un sentiero accidentato e rendere più difficile per gli Stati Uniti il raggiungimento di un compromesso diplomatico. Ma a questo punto non esiste un percorso sicuro per Biden e, almeno sul piano politico, questo imboccato appare come il più saggio.

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