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Corsi e ricorsi, dalla guerra di Crimea del 1853 alla crisi ucraina

Di Dora Attubato

Dal 2014, data in cui Putin ha occupato la Crimea (20 febbraio), sono passati otto anni. Un mese prima (il 23 gennaio) l’ex presidente sovietico Mikhail Gorbacev aveva invitato lo stesso Putin e l’allora presidente americano Barack Obama a trovare una soluzione alla crisi ucraina per evitare una “pericolosissima escalation” e una conseguente “catastrofe”

Per chi mastica di storia, la guerra in Ucraina può sembrare un déjà-vu. I teatri, i confini, gli obiettivi sono quasi gli stessi. Cambiano gli attori, ma appaiono come una reincarnazione. Non si chiamavano Putin, Macron, Zelensky, ma Nicola I, Napoleone III, Abd ul-Mejid I.

L’ occasione di scontro era sempre la Crimea che, fino al 1853, faceva parte dell’impero turco-ottomano. La politica espansionista dello zar Nicola I ai danni dei turchi veniva generalmente considerata, come scriveva Gabriele De Rosa, “un’indebita ingerenza negli affari interni di un altro Stato” e la reazione delle due potenze occidentali di allora, Francia e Inghilterra (a cui si aggiunse il Regno di Sardegna), nonostante l’inerzia dell’impero austroungarico, fu di isolare la Russia.

La certezza era che da quel conflitto sarebbe mutato l’assetto geopolitico. Infatti, la Pace di Parigi del 1856 disegnò un equilibrio totalmente nuovo delle alleanze. Perché Nicola I voleva la Crimea? Per le stesse ragioni di Putin: lo sbocco sul mar Nero. La fortezza di Sebastopoli era ed è, infatti, un importantissimo porto commerciale. Perché andava fermato? Bisognava scongiurare il rischio di una chiusura degli sbocchi commerciali in Oriente, garantito dalla Convenzione di Londra del 1841, che impediva il passaggio dei navigli militari di qualsiasi nazione nei canali del Bosforo e dei Dardanelli.

Perché si cercò prima la soluzione diplomatica? Perché il conflitto si sarebbe allargato alle altre grandi potenze. Anche per i comuni mortali che non masticano di storia, dunque, certe analogie sono impressionanti. Ciò che non sfugge è il principio (ancora non c’erano né la Società delle Nazioni né l’Onu) già comunemente condiviso della sovranità nazionale e della non ingerenza.

Sappiamo come andò a finire la guerra di Crimea, con la Russia (a Nicola era succeduto Alessandro II) costretta ad accettare le durissime condizioni imposte dalla Pace di Parigi, l’inizio della fine dell’impero zarista. Ci vollero cinque mesi perché si decidesse la controffensiva armata dell’Occidente per difendere i territori occupati.

Dal 2014, data in cui Putin ha occupato la Crimea (20 febbraio), sono passati otto anni. Un mese prima (il 23 gennaio) l’ex presidente sovietico Mikhail Gorbacev aveva invitato lo stesso Putin e l’allora presidente americano Barack Obama a trovare una soluzione alla crisi ucraina per evitare una “pericolosissima escalation” e una conseguente “catastrofe”.

L’autore del disgelo e della fine della Guerra Fredda aveva letto la storia. Aveva intuito che le manie imperialiste non possono che sfociare in conflitti e che la mancanza del confronto nelle autocrazie genera una stabilità effimera. Prima ancora di Gorbacev, Romano Prodi, da presidente della Commissione europea, aveva avvertito sulla opportunità di individuare delle zone cuscinetto intorno ai confini russi. Cos’è cambiato dalla prima guerra di Crimea alla crisi ucraina? È cambiata l’Europa ed è intervenuto un nuovo attore: gli Stati Uniti. Inoltre, la permanente minaccia nucleare impedisce la ricerca di un qualsiasi casus belli. La verità è che l’unione economica ha fatto la pace.

Come disse Francois Mitterrand il 17 gennaio 1995 al Parlamento europeo, a cinquant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale: “L’alternativa all’Europa è il nazionalismo e il nazionalismo è la guerra”. L’impostazione democratica dell’Occidente ha assicurato quasi un secolo di pace. Laddove sopravvivono le autocrazie, i fronti restano aperti. Per questo, l’interventismo del 1854 dopo il fallimento del negoziato non potrebbe ripetersi. Almeno, non in tempi brevi. Al di là del deterrente nucleare, la democrazia ci ha educati alla pace. L’inviolabilità dei confini è un principio acquisito (oltre che sancito) ed è il punto di partenza, oggi come allora. E proprio come due secoli fa, il rischio è uno sconvolgimento degli equilibri globali.

A questo punto, andare alla ricerca delle colpe dell’Occidente raddoppia la colpa e consolida il pantano dell’ignavia. Le grandi potenze non temporeggiarono, scelsero. Quando un altro dittatore ebbe manie espansionistiche, sir Winston Chruchill riassunse in poche parole l’inazione delle nazioni: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra”. La storia ci ha insegnato che una terza via è sempre possibile.

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