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Economia e guerra, pensare global e agire local

Di Maurizio Guandalini

In Italia manca una visione glocal, che vuol dire, per la politica, adattare una strategia globale al contesto locale. L’opinione di Maurizio Guandalini, giornalista e saggista

Il tronfio grido sanzioni-sanzioni sta lasciando spazio all’urgente necessità dell’esercizio del buon padre di famiglia dell’uomo di Stato, chiamato all’impegno, primo, di salvare, dalle difficoltà, la nazione e i cittadini che rappresenta.

La stragrande maggioranza degli italiani ha come affannosa preoccupazione lo stato di salute delle finanze di casa. Sono 4 milioni le famiglie a rischio. In questi giorni travagliati capiamo quanto sarebbe stato saggio che economia e politica avessero viaggiato ognuna per la propria strada lasciando il resto a una mediazione, politica o religiosa, che sopisse il nervosismo da rilancio delle classi dirigenti, legato al frémir di foglie delle micce accese del conflitto russo-ucraino.

Quando si usa l’economia globalizzata per risolvere dispute in armi, la geoeconomia che entra inopportunamente nella geopolitica, e viceversa, si creano solo danni, estesi ovunque, colpendo anche ciò che sarebbe stato opportuno lasciare intonso (la caccia all’oligarca ha coinvolto quell’Abramovich che il presidente ucraino Zelensky ha detto essere utile alla mediazione di pace).

Abbiamo ascoltato la politica troppo concentrata a far salire la temperatura dell’escalation con Mosca (l’accorta e quanto mai opportuna reprimenda comminata a Biden da Macron per i toni fuori luogo usati contro Putin è un esempio) piuttosto di ergersi a provvedere a spegnere i tanti focolai accesi dentro le mura di casa conseguenti alla presa in carico di sanzioni impossibili da sostenere. Abbiamo registrato risposte flebili. Pochi dettagli temporali rassicuranti che allevi i sacrifici che obtorto collo gli italiani hanno assunto in carico. Anche l’informazione e il dibattito tra esperti relega la ricerca di soluzioni urgenti al caos economico che s’ingrossa sempre più – l’ingegner Carlo De Benedetti, uno che di previsioni se ne intende, ha detto che ci aspettano “recessione, choc energetico e fame” – a un piccolo equivoco senza importanza scavando un fossato in cui scorrono giustificazioni ‘benaltriste’ utili di fronte a problemi che non hanno soluzioni a portata di mano.

Constatiamo un susseguirsi di vertici internazionali, Consiglio d’Europa e G20, dove si è parlato di ‘una presa d’atto’ dei problemi ma niente cash. Come fosse fuori luogo chiederlo. Il denaro è demandato ad altri incontri, a rimedi in via di preparazione. Gli Stati Uniti, impegno al 2030 (quando è elettoralmente improbabile vi sia ancora Biden alla Casa Bianca), ci invieranno gas liquefatto che un fabbisogno non totalizzante rispetto le nostre necessità. Servono rigassificatori e quindi dovremo sopperire con l’acquisto di navi che faranno questo lavoro. Comunque tempi lunghi. L’ipotesi cogente certa è il razionamento, usare meno gas, che vuol dire un progressivo impoverimento della nazione.
Manca una visione glocal, che vuol dire, per la politica, adattare una strategia globale al contesto locale.

Economia in allarme

Ripeto con frequenza quello che mi capita di vedere e ascoltare. Un’anziana preoccupata. Poco più di un monolocale. L’anno scorso 400 euro di gas. In questi giorni una bolletta di 750 euro. La luce, lo scorso anno 73 euro, oggi 167. Una pensione appena incassata con 15 euro di aumento. Le case popolari, aziende regionali e comuni stanno mettendo a disposizione appartamenti per i profughi ucraini. Parimenti salgono le proteste di coloro che sono in graduatoria da anni e gli è ricordato che non ci sono case a disposizione.

Due piccoli frammenti quotidiani della realtà italiana, entrambi legati al traguardo della sopravvivenza, che in largo chiedono la risposta sul come si troveranno i denari per colmare esborsi straordinari delle famiglie – il bonus energia è un timido ma ristretto intervento – e dall’altro come verrà gestita l’accoglienza (chi paga?), mai risolta esemplarmente né dall’Italia e né dall’Ue in precedenti occasioni. La preoccupazione maggiore è che sta montando un disequilibrio che coinvolge gli altri strati sociali della popolazione, il ceto medio, quello abituato a spendere. È inderogabile trovare soluzioni immediate a rincari che travolgono famiglie, attività professionali e imprenditoriali aggrappate a un destino incerto a lungo termine. Avremo stringenti ristrettezze energetiche per diversi anni, con alti costi da sostenere che nessun scostamento, possibile, del bilancio dello Stato (si ricordi la recente osservazione del Ministro Franco sulla cura per ridurre il debito) potrà ristorare.

Per il caro energia e materie prime si paventa l’incertezza di realizzazione del Pnrr e della transizione energetica. Infatti per le rinnovabili serve litio e terre rare, rame, cobalto, nichel che in Italia non ci stanno. Si fermano le ristrutturazioni edilizie perché i costi dei materiali sono schizzati all’insù. Le spese dei comuni e della sanità stanno lievitando fino a compromettere il ventaglio di servizi e prestazioni offerti al cittadino. Infine, insieme al caro benzina (l’accise tolta di 25 cent è già sotto l’uscio), c’è il rebus della filiera alimentare, grano-mais-concime che servono oggi non al prossimo raccolto chissà dove.

Italia autarchica?

La nostra economia sta avviandosi a forme stringenti di ‘autarchia’ ma si attendono soluzioni comuni all’economia di guerra da parte dell’Unione europea. Difficile da conciliare quando i problemi da Stato a Stato sono spesso agli opposti. Divaricanti. A partire dal rifornimento energetico. Ci si meraviglia della speculazione. Che corre verso chi è vicino alla canna del gas e non ha alternative. È un cul de sac preparato con le nostre mani. Quindi se il format futuro, confermato, è autarchia spinta, con lo Stato fai da te, è pretenzioso chiamare l’Europa a spendere in nome dei singoli stati per coprire le perdite. Così come è impossibile chiedere un prezzo (di Stato) ‘embrasson nous’, ad esempio per il gas (vedremo come andrà la pratica dell’acquisto comune), entrando a piè pari nel meccanismo del libero mercato di aziende e paesi che autonomamente hanno determinato scelte di politica economica, ad esempio produrre energia da fonti rinnovabili, con le quali oggi riescono fronteggiare al meglio, guadagnandoci negli sbalzi di prezzo dei combustibili fossili. È il vantaggio competitivo, alla base della concorrenza tra imprese, tra stati. Che non è solo nell’energia.

Ancora oggi, in Italia, si è ridotta la faccenda delle sanzioni come qualche borsa in meno da vendere. Rompi con la Russia, e via, pace e amen. Poi c’è qualche Stato, dallo sciovinismo tattico, che traina l’Europa, vedi la Francia, che allo score della borsa della spesa ci sta attenta. Chissà, i cugini d’oltralpe, come l’avranno preso l’invito ucraino all’Occidente di boicottare l’acquisto dei prodotti di aziende francesi ancora sul territorio russo. Tant’è. Le sanzioni ci sono. Ce le teniamo. Anche se prima di uniformarsi al cosiddetto fronte comune sarebbe stato il caso di discuterne a viso aperto, anche per calibrarle meglio, senza subirne, dopo, danni così pesanti.

Ciò detto, se non ci sono risposte a breve, lanciamo la vista a lungo raggio. Se ci metteremo a riscrivere il sistema globale è inevitabile riformulare gli stessi Trattati che regolano l’Unione europea. Si pensi al sistema delle quote di produzione. Se ogni paese deve fare di più da sé è inevitabile che le quote vanno riviste, rimodulate. Altresì va verificato il sistema di voto. In molti casi raggiungere l’unanimità è impossibile perché si parla di interessi economici dei singoli stati che differiscono macroscopicamente uno dall’altro. E questo sarà solo l’inizio.

Lanciamo la vista alle prossime elezioni politiche. Le magnifiche sorti e progressive di Draghi non saranno più legate alla soluzione del Covid-19 e alla realizzazione del recovery ma su come ne uscirà dai contraccolpi finanziari insorti con l’economia di guerra (sommati alla pandemia) e ribaltati nel portafoglio delle famiglie italiane. E per forza ci entreranno gli appoggi rispetto alle decisioni prese dal Governo sul conflitto in corso. Le contraddizioni sono aperte in ogni coalizione, tra gli stessi leader e all’interno dei partiti. Dall’invio di armi all’Ucraina e, a discendere, qui sta la ciccia, sugli effetti di mosse un po’ azzardate sul versante economico nel rapporto tra sanzioni comminate alla Russia e capacità di trovare soluzioni rapide nell’immediato scoperto a partire dal fabbisogno energetico. Quindi le risposte dell’Unione europea. Così il cerchio si chiude. E non reggeranno le giustificazioni che non si poteva fare altrimenti.

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