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Il fascino esercitato da Marco Biagi sui giovani di oggi. Il commento di Massagli

Di Emmanuele Massagli

In una epoca nella quale la tiepidezza sembra essere la caratteristiche prevalente degli educatori, nella quale la passione per i valori è considerata un atteggiamento giovanilistico e poco maturo, nella quale il proprio interesse è sempre anteposto a quello altrui, la figura di Marco Biagi esercita l’incensurabile fascino di chi ha avuto il coraggio di dare la vita per ciò in cui credeva. Il commento di Emmanuele Massagli, presidente di Adapt

Marco Biagi, temendo per la sua incolumità, tanto più perché conscio della grave e ostinata sottovalutazione del pericolo da parte della autorità pubbliche, più volte si premurò di ricordare ai colleghi in Accademia, per quanto concerneva la ricerca scientifica, e ai referenti politici e delle parti sociali, per quel che riguardava la progettualità legislativa, che il suo allievo, Michele Tiraboschi, avrebbe portato a termine quanto appassionatamente intrapreso.

Non progetti estemporanei, ma un lungo cammino di modernizzazione iniziato nel 1997 (ministro del lavoro era Tiziano Treu) e continuato nei primi anni del Duemila (ministro del lavoro era Roberto Maroni, sottosegretario Maurizio Sacconi). Lo ricordano, in questi giorni, i tanti che hanno avuto la fortuna di incontrarlo nella sua veste di professore universitario o in quella di “consigliere del principe”. Ancora a vent’anni di distanza, anche per chi non lo ha conosciuto (come chi scrive), questa dedizione così cosciente e convinta da prevedere addirittura l’ipotesi del martirio, risulta un tratto vertiginosamente affascinante del professore bolognese.

Nella storia del nostro Paese non ci sono soltanto i tanti (troppi) che hanno pagato con la vita per le proprie idee: più folto è il gruppo di coloro che, di fronte al pericolo, hanno preferito smussare le proposte e rivedere i progetti di riforma. Non gliene si può fare una colpa, ci mancherebbe. Anzi, può sorgere la domanda su quale atteggiamento sia, in fondo, il più ragionevole. Quanto accaduto in questi venti anni a proposito della figura di Marco Biagi suggerisce qualche risposta.

La memoria dell’ultimo dei giustiziati dalla furia ideologica di chi antepone le categorie politiche alle persone (una tentazione sempre attuale, non terminata coi nuovi brigatisti rossi) è ancora viva nelle istituzioni, tra le parti sociali, in Accademia. Non solo: oltre una cinquantina di giovani ogni anno si avvicinano al centro studi che il professore fondò con i suoi allievi, Adapt, per studiare le sue idee e continuamente attualizzarle in un mondo molto diverso da quello degli anni Duemila nelle forme, ma non nelle dinamiche.

Cosa affascina questi giovani? Cosa li spinge a trasferirsi a Bergamo, Roma, Modena o Arezzo (dove opera Adapt), a rileggere risalenti riflessioni dottrinali, a seguire un impegnativo percorso triennale di dottorato (il primo in Italia per numero di apprendisti e borse finanziate da soggetti privati)? Certamente, come viene sovente ricordato, vi sono tratti peculiari dell’approccio di Biagi al diritto del lavoro ancora più centrali di venti anni fa: in primis il metodo comparato e la conoscenza delle dinamiche reale delle relazioni industriali, anche oltre il dato legislativo. Non si tratta tuttavia di aspetti in grado di spiegare la perduranza del fascino che il “giurista progettuale” ancora esercita sui giovani.

Il motivo è allora da ricercarsi, paradossalmente, proprio in quella dedizione, in quella convinzione per le proprie idee, che hanno portato Marco Biagi ad anteporre il suo progetto di miglioramento della società alla sua incolumità. Il professore sapeva di rischiare la vita, ma non si è fermato.

In una epoca nella quale la tiepidezza sembra essere la caratteristiche prevalente degli educatori, nella quale la passione per i valori è considerata un atteggiamento giovanilistico e poco maturo, nella quale il proprio interesse è sempre anteposto a quello altrui, la figura di Marco Biagi esercita l’incensurabile fascino di chi ha avuto il coraggio di dare la vita per ciò in cui credeva. Una radicalità che spaventa gli adulti, i quali, non a caso la incasellano in complesse spiegazioni storico-giuridiche o in nessi sociologici di causa-effetto; ma anche una radicalità che, ancora oggi (per fortuna!), è ricercata dai giovani.

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