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I social contro la propaganda. Ma è la scelta giusta?

Se le grandi piattaforme prendono o meno posizione nel conflitto è (soprattutto) un problema della politica. Ma vogliamo davvero una rete frammentata, divisa per confini geopolitici? L’analisi di Matteo Flora, professore in Corporate Reputation & Business Storytelling, CyberSecurity e Data Driven Strategies

Ci voleva un conflitto, uno alle porte di casa nostra e che colpisce proprio quell’Europa che pensava che la pace fosse uno status quo non negoziabile, per muoversi con decisione contro la macchina della guerra mediatica, il fratellino povero e ben poco considerato del cosiddetto quinto dominio della conflittualità: quello cibernetico.

E tanto piccolo pare non essere, visto che le più grandi aziende di social media del mondo stanno correndo ai ripari, lottando contro il tempo per combattere un bombardamento senza uguali di non-informazioni polarizzate sospinte dal Cremlino con vari trucchi e trucchetti del digitale atti a muovere le strategie di creazione del consenso, di scoraggiamento dell’avversario e di manipolazione dell’opinione pubblica relativamente alla invasione dell’Ucraina: un bombardamento che ancora una volta mette al centro proprio quei giganti tecnologici divenuti i nuovi gatekeeper dell’informazione, che diventano obiettivi principali nel mirino della disinformazione.

E gli esempi sono stati molteplici negli ultimi giorni: dalle false informazioni su come il governo ucraino starebbe conducendo un genocidio di civili, diffusi sia su Twitter sia su Facebook, fino ai video del governo russo – compresi i discorsi di Vladimir Putin su YouTube che hanno anche ricevuto introiti dagli inserzionisti occidentali. Per non parlare dei video su TikTok che asseritamente rappresentavano scene di conflitto e che invece di presunte battaglie in tempo reale mostravano filmati storici, tra cui immagini e video della zona del conflitto manipolati. Secondo l’analisi di FirstDraftNews, una non-profit dedicata al tracciamento della disinformazione, in uno di questi video – da oltre 200.000 visualizzazioni su Twitter – si mostravano aerei da combattimento con una ripresa da una manifestazione del 2020. Un altro, ora rimosso da Twitter ma visto più di 300.000 volte, era in realtà estratto addirittura da un videogioco dal titolo War Thunder, con peraltro medesime immagini filtrate il 24 febbraio in un servizio dal titolo Pioggia di missili russi sull’Ucraina al TG2.

Un massiccio attacco mediatico sul fronte digitale che ha lasciato molti sbigottiti per capacità, complessità e dimensione dell’attacco. Cosa che non doveva succedere, visto che conosciamo il fenomeno da molti, molti anni.

Era il 2015 quando Alexey Levinson con un editoriale dal titolo Public opinion and propaganda in Russia ci raccontava dalle pagine dello European Council on Foreign Relations come buona parte della popolarità del leader russo, nella sua nazione e all’estero, fosse di origine prettamente propagandistica. Con parole difficilmente equivocabili raccontava che “la popolarità di Putin va oltre il culto della personalità: riaffermare lo status di grande potenza nella mente dei russi è il cuore del suo successo”.

Molti studi avevano già confermato la complessità e ingerenza della propaganda russa nel panorama internazionale. Nel 2018, Social Media, Political Polarization, and Political Disinformation: A Review of the Scientific Literature distingueva addirittura sei “dimensioni” separate di relazione tra social media, polarizzazione politica e disinformazione. Il rapporto si concludeva identificando le lacune chiave nella nostra comprensione di questi fenomeni e i dati necessari per affrontarle.

Dati che nelle oltre 150 di Russian Social Media Influence: Understanding Russian Propaganda in Eastern Europe, volume del 2018 della Rand Corporation, portano già da quell’anno a conclusioni senza mezzi termini: “Oltre a impiegare una rete televisiva multilingue finanziata dallo stato, a gestire vari siti web di notizie che supportano il Cremlino e a lavorare attraverso diverse costellazioni di organizzazioni della società civile sostenute dalla Russia, la Russia impiega una sofisticata campagna di social media che comprende tweet di notizie, commenti non attribuiti su pagine web, account di troll e bot sui social media e campagne di hashtag e Twitter falsi. Da nessuna parte questa minaccia è più tangibile che in Ucraina, che è stata un attivo campo di battaglia di propaganda dalla rivoluzione ucraina del 2014”.

Tanto presente la minaccia che il Consiglio europeo lanciava già nel marzo 2015 una sfida alla campagna di disinformazione pubblica della Russia sul conflitto in Ucraina e i leader dell’Unione europea richiedevano un piano d’azione poi rilasciato il successivo 22 giugno. Il documento delinea le misure previste in relazione alla comunicazione strategica dell’Unione europea su questioni relative alla propaganda russa, nonché sforzi più ampi dell’Unione europea a sostegno della libertà dei media.

E quale risposta si era riusciti a sollecitare da parte delle grandi piattaforme dei social network al mondo? Nella pratica, solo azioni di rallentamento e non definitive, anche viste le raccomandazioni molto poco vincolanti e per nulla specifiche che erano state proposte dagli organismi centrali europei e quelle ancora più farraginose provenienti dai singoli governi locali.

Nella mancanza di una visione chiara e precisa, le piattaforme hanno pensato principalmente a cercare di coniugare interessi contrapposti di controllo e pluralità dell’informazione andando a investire su meccanismi di trasparenza e di divieto di interferenza diretta: la prima parte ottenuta con l’indicazione chiara che le informazioni pubblicate da taluni media outlet fortemente polarizzati (Sputnik e Russia Today in primis) provenivano da una fonte direttamente sovvenzionata da uno Stato, la seconda ottenuta con la proibizione dell’utilizzo dell’advertising. Tali decisioni erano rese possibili, se non obbligatorie, sia a seguito delle asserite interferenze russe nelle elezioni americane del 2020, sia a seguito delle campagne di disinformazione cinesi su varie piattaforme, prima tra tutti Twitter, secondo le logiche che le piattaforme hanno sempre definito di “comportamento non autentico coordinato”.

Null’altro, però, era accaduto a tali media fortemente connotati da finalità di propaganda, anche a valle di reiterati segnali di allarme da parte dell’accademia e dalle associazioni di monitoraggio del fenomeno. E il bassissimo coinvolgimento delle piattaforme nel contrasto a questi comportamenti è stato possibile complice, ancora una volta, la mancanza di una direzione precisa da seguire che fosse in grado di coniugare in un mercato potenzialmente globale le due forze talvolta contrapposte di mercato e di responsabilità. In una micro-frammentazione degli interessi di quella che potremmo chiamare la “componente atlantica” della Rete, nelle schermaglie tra differenti Stati per la gestione o sovranità di parti della Rete, nella teorica neutralità asserita di un mezzo, la Rete, che raramente riesce ad avere una applicazione pratica realmente neutrale.

Ma in un momento storico in cui decade anche la proverbiale neutralità di uno Stato come la Svizzera, che decide di adottare le sanzioni di Europa e Stati Uniti contro la Russia, anche le grandi piattaforme si muovono ora coese, e assistiamo a una posizione più ferma di Google che dichiara:“A causa della guerra in corso in Ucraina, stiamo bloccando i canali YouTube collegati a RT e Sputnik in tutta Europa, con effetto immediato”. E di Meta che, attraverso un tweet di Nick Clegg, presidente responsabile degli affari globali, fa sapere: “Abbiamo ricevuto richieste da un certo numero di governi e dall’Unione europea di prendere ulteriori misure in relazione ai media russi controllati dallo stato. Data la natura eccezionale della situazione attuale, limiteremo l’accesso a RT e Sputnik in tutta l’Unione europea in questa fase”.

In altre parole, un cedimento su tutta la linea, completamente differente dalle azioni fatte in passato e completamente di segno opposto ai comportamenti pregressi? Non proprio, verrebbe da dire, anzi… E allora cosa è cambiato?

È cambiato che la precedente frammentazione delle richieste e delle aspettative dei singoli governi sono confluite in una linea comune e precisamente esposta, una linea di azione non più difficile da interpretare e con scarsa – se non inesistente – possibilità di essere male interpretata, dove le parole di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, sono, per una volta, chiare e adamantine: “(…) in un altro passo senza precedenti, vieteremo nell’Unione europea la macchina mediatica del Cremlino. Russia Today e Sputnik, di proprietà statale, così come le loro filiali, non potranno più diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin e disseminare divisione nella nostra Unione. Quindi stiamo sviluppando strumenti per vietare la loro disinformazione tossica e dannosa in Europa”.

La “componente atlantica” della Rete, fatta dagli interessi di due grandi blocchi composti principalmente da Unione europea e Stati Uniti, finalmente confluiscono e i social network si uniformano quasi istantaneamente. Lasciando, peraltro, vari dubbi etici sulla poca reattività invece da parte delle società di telecomunicazioni, che invece ancora tardano a intervenire.

Parrebbe quindi una favola a lieto fine, in cui alla fine il bene vince contro al male e la verità trionfa luminosa sul buio della propaganda. Ma raramente le storie nella vita reale ci offrono questo tipo di chiusura. E così è di nuovo lo stesso Clegg a spiegarci qual è il risvolto oscuro di questa medaglia: “I cittadini russi stanno usando Meta per esprimersi e organizzare l’azione. Vogliamo che continuino a far sentire la loro voce, a condividere ciò che succede e a organizzarsi attraverso Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger”.

Già, perché ogni azione ha una reazione uguale e contraria e le informazioni che passano proprio attraverso la Rete in Russia sullo stato reale del conflitto, la possibilità di parlare con le persone, di contattare i propri cari e di accedere a stampa non centralmente controllata, porta la Russia stessa a implementare blocchi verso quei media della “componente atlantica” che minacciano l’immagine accuratamente creata. E quindi, con una dichiarazione ufficiale del Roskomnadzor, il Servizio federale per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa, comunica che il “25 febbraio, l’ufficio del procuratore generale, in consultazione con il ministero degli Affari esteri, ha deciso di riconoscere Facebook come un social network coinvolto nella violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nonché dei diritti e delle libertà dei cittadini russi”. E così, “in conformità con la decisione della procura generale sul social network Facebook, a partire dal 25 febbraio 2022, Roskomnadzor (..) ha preso misure per limitare parzialmente l’accesso sotto forma di rallentamento del traffico”.

Facebook è quindi rallentato perché violerebbe le libertà fondamentali dei cittadini russi, il contraltare nel “blocco Est” della Rete opposto a quello “atlantico”, in una continua contrapposizione di posizioni a cui dovremo abituarci.

Incidentalmente nella maglia della censura finisce anche TikTok, reo di ospitare sempre, secondo il Roskomnadzor, contenuti “sul tema di un’operazione militare speciale in Ucraina (così Mosca definisce la guerra in corso, ndr), così come contenuti politici correlati offerti specificamente ai bambini (…) di natura anti-russa”. Anche in questo caso chiede alla azienda “di escludere qualsiasi contenuto militare o politico dalle sue raccomandazioni per i minori”.

E rimane da capire in quale modo la censura da parte di uno Stato dei meccanismi con cui i cittadini si approvvigionano di informazioni e le producono possa essere in alcun modo classificata come una “vittoria” di uno dei due blocchi contrapposti.

Tendo a citare spesso George Bernard Shaw, secondo cui “per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice, che è sbagliata”, ma mai come in questo caso la citazione è perfettamente adeguata: se da un lato abbiamo capito come la coesione di intenti e la chiarezza delle disposizioni da parte dei governi riescono a suscitare una reazione immediata e incisiva da parte dei grandi della Rete, dall’altra parte il problema rimane.

Perché se abbiamo capito che l’utilizzo di Internet non è neutrale, anche se (almeno teoricamente) la Rete ha le qualità per poterlo essere, se abbiamo compreso come servano delle direzioni chiare, quello che stiamo vedendo è comunque una frammentazione della rete. Una rete frammentata in “blocco atlantico e “blocco Est”, oppure una rete sotto-frammentata in singoli Stati con interessi contrapposti, o provincie con interessi contrapposti, o cittadine con problemi contrapposti.

E, con ogni frammentazione successiva, sempre più grande la probabilità di fare perdere a normali cittadini dall’altra parte di una di queste frammentazioni/barricate la possibilità di informarsi e fare sentire la propria voce.

Vogliamo una rete frammentata? E quanto?

E siamo sicuri che sia la scelta corretta?


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