Skip to main content

Italia senza leadership (e visione). Il libro di Saravalle e Stagnaro

Di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

Pubblichiamo un estratto dal libro di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro, “Molte riforme per nulla. Una controstoria economica della seconda repubblica” (Marsilio). In Italia in tutti questi anni è mancata la leadership, ovvero quel mix tra visione d’insieme e capacità di decidere, con una piena assunzione di responsabilità politica, che fa di un capopartito (o di un premier) uno statista

Non si può circoscrivere la responsabilità di una stagnazione economica pluridecennale attribuendola solo alla politica o all’amministrazione: l’incapacità di disegnare, difendere e attuare riforme davvero incisive è dell’intera classe dirigente, economica e intellettuale, che spesso si è schierata contro i provvedimenti di modernizzazione, nel nome di un (percepito o reale) interesse particulare. Infatti non di rado le riforme sono state perseguite contro l’opinione pubblica, e le controriforme sono state invece adottate tra fragorosi applausi.

[…]La realtà è che le riforme sono state sempre effettuate un po’ disordinatamente, con obiettivi limitati: per onorare le promesse elettorali, risolvere l’ennesima emergenza finanziaria, combattere una specifica battaglia ritenuta politicamente utile, rispondere alle sollecitazioni dell’Ue, ottenere un po’ di flessibilità che consentisse di mantenere un elevato disavanzo pubblico ecc. In molti casi sono state vissute come un’imposizione esterna – i “compiti a casa”, per usare un’espressione in voga – anziché essere inserite all’interno di un disegno di ampio respiro per cambiare il Paese. È mancata, in altri termini, una visione del mondo – una Weltanschauung – sottostante. Non c’è dunque da stupirsi se pochi leader si sono sforzati di spiegare con chiarezza ex ante i sacrifici cui si doveva andare incontro nel breve termine a fronte di significativi benefici nel medio-lungo termine.

[…] In poche parole, è mancata la leadership, ovvero quel mix tra visione d’insieme e capacità di decidere, con una piena assunzione di responsabilità politica, che fa di un capopartito (o di un premier) uno statista. Occorre avere la forza e il coraggio di intestarsi le riforme in prima persona (non lasciando esporre solo il ministro competente per materia), portarle avanti con determinazione parlandone al Paese, spendere il proprio capitale politico per realizzarle. […] Non è un caso se tutti ricordiamo con ammirazione – indipendentemente dal giudizio di merito che si può dare sui loro atti – i grandi leader che hanno costruito l’Europa per come oggi la conosciamo. Winston Churchill, che non ebbe paura di promettere “sangue, sudore e lacrime”; Margaret Thatcher, che non si sottrasse alla durissima battaglia contro i minatori, per non compromettere il proprio disegno di modernizzazione del Paese; Gerhard Schröder, che seppe trasformare il welfare, facendo della Germania una potenza industriale; e, più recentemente, Angela Merkel, che osò sfidare il proprio elettorato con l’apertura delle frontiere ai migranti e, da ultimo, rendendo possibile il programma Next Generation Eu, che per la prima volta prevedeva l’emissione di titoli di debito europei su larga scala.

Anche in Italia abbiamo avuto esempi di leadership, beninteso. Senza andare ai grandi uomini che ricostruirono il Paese dopo la seconda guerra mondiale, basti ricordare Bettino Craxi, che nel 1984 volle andare fino in fondo con l’abolizione della scala mobile; Romano Prodi, che non ebbe timore di imporre l’eurotassa pur di garantire l’ingresso in Europa; Silvio Berlusconi, che sfidò la piazza per ottenere l’approvazione della legge Biagi in materia di occupazione, e Matteo Renzi, che mise la fiducia sul Jobs Act e sulle unioni civili.

C’è però una certa differenza. I grandi capi di governo europei che abbiamo menzionato seppero interpretare, letteralmente, una visione del mondo e un sistema di valori. La loro eredità non consiste in un singolo provvedimento (per quanto ve ne siano ovviamente alcuni particolarmente importanti, per le loro conseguenze pratiche o per il loro valore simbolico). Intendiamoci: non stiamo dicendo che essi non abbiano compiuto gesti incoerenti o sconfinato talora nell’opportunismo. Ovviamente non è così. Ma il punto cruciale è che sono riusciti a inserire i loro atti, incluse le contraddizioni, le rinunce e le marce indietro, all’interno di un sistema di valori riconoscibile e riconosciuto.

C’è un aneddoto attribuito a Margaret Thatcher che rende molto bene l’idea: dopo aver conquistato la guida dei Tory e prima di entrare a Downing Street, i maggiorenti del Partito conservatore, temendo la radicalità delle sue visioni, le chiesero moderazione. Ebbene, al culmine di una riunione molto tesa, Thatcher tirò fuori un libro dalla borsa, lo sbatté sul tavolo ed esclamò: This is what we believe. Quel libro era The Constitution of Liberty di Friedrich Hayek. Non importa se questo episodio sia veramente accaduto, conta che è assolutamente verosimile. Ecco: è davvero difficile immaginare una scena analoga in Italia. È ancora più difficile intuire quale potrebbe essere il libro in questione (ci piacerebbe fosse Prediche inutili di Luigi Einaudi). E la ragione è che anche i nostri premier più coraggiosi e riformisti non seppero, se non occasionalmente, trasmettere la big picture all’interno della quale si muovevano. In qualche modo, ci provò Berlusconi nel 1994, quando “scese in campo” con un programma dichiaratamente liberale che proponeva una netta visione della società, che però poi non mise in atto, neppure parzialmente, durante i suoi quattro governi. E così anche per gli altri dopo di lui, che, se mai presentarono alle elezioni un programma articolato, nel giro di poco tempo dall’arrivo al governo finirono per cedere sotto il peso delle troppe contraddizioni. Purtroppo, c’è poco da fare per l’assenza di leadership; vale quanto si suol dire per il coraggio: “Uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”.

×

Iscriviti alla newsletter