L’ultima volta che Igor Pellicciari e Michael Giffoni incontrarono l’allora Segretario di Stato fu in un’afosa giornata di fine luglio a Sarajevo nel 1999 in occasione dello storico lancio del Patto di Stabilità per il Sud-Est Europa. Disse loro una frase che può essere considerato il riassunto della sua eredità politica e morale
In altri tempi pre-bellici, la scomparsa di un ex-segretario di Stato Usa non sarebbe passata quasi inosservata come avvenuto nel caso di Madeleine Albright.
Nel passaggio di consegne tra infotainment sul Covid e cronache sulla prima guerra europea nell’era dei social media, la cascata quantitativa di notizie sull’Ucraina – utile a stimolare timori di un nuovo conflitto mondiale piuttosto che a comprendere la reale situazione sul campo – ha di nuovo desertificato i palinsesti.
Tanto che negli stessi giorni è introvabile pure la notizia del superamento del milione di vittime di Covid negli Usa; un dato che l’anno scorso avrebbe condizionato tutti i titoli di apertura.
Solo cinque mesi or sono, alla scomparsa di un altro ex-Segretario di Stato, Colin Powell, una reazione mediatica tutt’altro che distratta è stata l’ennesima occasione per commentare l’evoluzione della politica estera americana.
Un’analisi che sarebbe ancora più giustificata oggi nel caso della Albright, data la sua incidenza su scenari e dinamiche del suo tempo; decisamente maggiore di quella del soldato Powell, passato per esecutore passivo di ordini e marchiato dall’iconico fermo immagine mentre all’Onu mostra le false prove contro Saddam Hussein.
Non è esagerato dire che Madeleine Albright è stata l‘ultima e forse più alta espressione di una politica estera americana dominatrice incontrastata del contesto internazionale, progressivamente entrata in un lento ma inarrestabile declino con il nuovo millennio. Idealmente dopo gli attentati dell’11 Settembre 2001.
E’ stata una fase coincidente con gli anni ’90, riassunti nella semplicistica formula del “poliziotto del mondo” americano: utile ad indicare gli Usa solitario global player nel contesto post-bipolare, ma che non rende conto della complessità di scelte in politica estera che richiese. Tutt’altro che facili proprio perché prese senza la spinta del continuo contraddittorio competitivo che aveva marcato l’azione di Washington durante la Guerra Fredda.
In realtà si tratta del periodo in cui si gettano le basi della strategia di apertura\allargamento atlantico a trazione americana verso l’Est Europa ex-comunista, in libera uscita dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, tornata di cocente attualità con il conflitto russo-ucraino.
Il punto è che imputare criticamente alla Albright – come letto da alcune parti in questi giorni – di essere stata tra i principali ideatori dell’attuale estensione dalla Nato ad Oriente è un errore grossolano.
Quella di oggi è la brutta copia iper-tattica e retorica della strategia di allargamento originaria: molto poco è rimasto dell’iniziale alta visione di ampio respiro, al contempo umanistica ed umanitaria, ideata e promossa in prima persona proprio dalla Albright.
Originaria essa stessa dell’Europa Orientale (nata a Praga nel 1937, con il nome Maria Jana Korbelová) manteneva un vivo ricordo e legame con i luoghi delle sue radici, che da ragazzina aveva dovuto abbandonare da profuga, subendo un trauma indelebile che la accompagnò per tutta la vita e finì per ispirarne l’attività professionale.
Come pochi altri prima e dopo di lei arrivati al massimo livello del policy making di una super-potenza, la Albright è stata sinceramente preoccupata della ricaduta umanitaria delle crisi internazionali del suo tempo e ha considerato obiettivo primario della politica estera l’adoperarsi concreto per ridurre se non porre fine alle sofferenze umane.
Vedeva la preponderanza del potere degli Stati Uniti strettamente legata alla responsabilità di usarlo per perseguire fini che trascendessero il mero perseguimento di interessi nazionali di parte.
Ha interpretato il problema (e i dilemmi morali) del rapporto tra intervento umanitario e sovranità in modo reale e non realista.
Lontano da quell’approccio cinico e strumentale alla difesa di interessi politici (di solo una parte) dell’establishment americano del momento (ogni riferimento a Dick Cheney non è puramente casuale).
L’apice di questa azione politica che professava il costante connubio tra pragmatismo istituzionale ed idealismo umanitario fu toccato in Bosnia ed Erzegovina, dove Madeleine Albright è stata un simbolo assoluto per quanti all’epoca si adoperarono per pacificare i Balcani Occidentali.
Da ambasciatrice americana all’Onu si era battuta per anni perché la comunità internazionale uscisse da un impotente torpore e intervenisse sul terreno ponendo fine a quell’ecatombe. Ci riuscì, ahimè tardi e solo dopo che l’indicibile si avverasse a Srebrenica.
Ma fu in massima parte grazie a lei e al team diplomatico messo in piedi da Bill Clinton, se si interruppe finalmente quell’indecoroso “triumph of the lack of will”, creato dalla rottura degli equilibri di potenza dopo la fine della Guerra Fredda che aveva attanagliato la diplomazia internazionale di fronte alla tragedia post-jugoslava e bosniaca dal ’91 al ’95.
Non solo lei, ma anche Richard Holbrooke, cui si devono in primo luogo gli accordi di Dayton, Robert Frasure, Chris Hill, John Menzies, per citarne solo alcuni, rappresentavano per noi che ci muovevamo sul terreno in mezzo a un autentico marasma, l’esempio di una diplomazia capace di tener fede ai valori e principi intervenendo efficacemente per la soluzione delle crisi senza badare solo alle logiche di potenza e soprattutto senza nascondersi dietro funambolismi e formule astratte retoriche.
Cercando di realizzare a livello globale quel “multilateralismo vigoroso e robusto” che per la Albright era un progetto concreto e non un semplice slogan.
Da donna originaria dell’Est Europa era consapevole della necessità di impegnarsi per una vera democratizzazione delle società post-comuniste ma anche che questa non poteva limitarsi alla semplice adesione a una Free Market Economy che, non accompagnata da vera maturazione politico-istituzionale, avrebbe in realtà aumentato diseguaglianze e ingiustizia sociale.
Le volte che avemmo il privilegio di incontrarla di persona in Bosnia alla fine degli anni ’90, ci colpì per la sorprendente modestia e grande disponibilità con cui si intrattenne con noi giovani diplomatici e operatori internazionali dell’epoca.
L’ultima volta, in un’afosa giornata di fine luglio a Sarajevo nel 1999 in occasione dello storico lancio del Patto di Stabilità per il Sud-Est Europa, ci disse a quattr’occhi una frase che ci piace ricordare oggi come riassunto della sua legacy.
“Le tentazioni autoritarie sono e saranno sempre in agguato, lo dico a voi in quanto europei e lo ripeto spesso a me in quanto americana. Nessuno è mai al sicuro dall’autoritarismo”.