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Non sparate sul pianista

Non ci sono parole per descrivere la vergognosa aggressione russa all’Ucraina, la disumanità che incombe sul popolo ucraino. Da quella disumanità dobbiamo stare alla larga. E invece ci sono segnali di un contagio preoccupante. Il commento di Dario Quintavalle

Nei migliori film western c’è sempre un saloon, con gente armata fino ai denti e pronta alla sparatoria. E poi, in un angolo, un omarino pallido e spaurito che cerca di rallegrare l’atmosfera, e inalbera il cartello: “Non sparate sul pianista!”.

Metafora utile per dire che, in qualunque conflitto, anche il più violento, ci debbono essere delle zone franche, da tenere al riparo, perché sono quelle da cui si dovrà ripartire quando il fuoco sarà cessato, per ricostruire la convivenza civile e un dialogo costruttivo. E queste zone franche dovrebbero essere: la cultura, la scienza, lo sport.

Per questo voglio dire la mia opinione, e pazienza se mi trovo nell’imbarazzante compagnia di Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino: l’esclusione, a causa della guerra in Ucraina, di 83 atleti russi e bielorussi disabili dalle Paralimpiadi Invernali di Pechino, appena inaugurati, è una vergogna.

Colpisce delle persone che sono già vittime della vita, e che nello sport hanno cercato il loro riscatto. Colpisce persone e popoli che non hanno alcun controllo democratico sulle azioni – criminali – dei loro governi, anche se ci hanno provato (le fiumane di bielorussi in strada contro Lukashenko appena due anni fa, ve le siete dimenticate? Gli arresti che avvengono in questi giorni a Mosca di gente colpevole solo di aver portato un fiore all’ambasciata ucraina, li avete visti?), e dunque non hanno colpe della situazione presente. Colpisce il movimento olimpico e l’idea stessa dello sport come strumento di pace tra le nazioni e mutua comprensione e conoscenza.

Le Olimpiadi nella Grecia antica erano l’occasione di una tregua sacra da ogni guerra. La competizione sportiva tra le nazioni sublima ed esorcizza quella politica, economica e bellica. Incapaci di mediare, stretti tra l’esigenza di salvare il principio e quella di salvare lo spettacolo, i rappresentanti del Comitato Internazionale Paralimpico hanno dunque scelto lo spettacolo. The show must go on, come in ogni circo che si rispetti.

E il palcoscenico di questo spettacolo è pure la capitale di un Paese retto da una dittatura comunista, autoritario e irriguardoso dei diritti umani in una misura di cui la Russia di Putin non è stata mai capace nemmeno nei suoi momenti peggiori (cioè adesso); che ci ha regalato una pandemia di due anni e ci ha guadagnato sopra; che ha quietamente accumulato un benessere che prima o poi si tradurrà in forza militare, come già oggi si traduce in influenza politica globale, fatalmente rivolta contro di noi – poveri ingenui Occidentali che pensavamo che nel 1991 il Capitalismo avesse sconfitto il Comunismo, mentre invece lì vanno ora tranquillamente a braccetto.

Tutto quanto sta accadendo in questi giorni vanifica tredici anni della mia esistenza e del mio lavoro – come cooperante allo sviluppo, pubblicista e studioso – per favorire la pace, la giustizia, il benessere e la comprensione tra i popoli. Un’avventura, e soprattutto una evoluzione professionale e umana, cominciata nel 2008 proprio a Kiev – che considero una seconda casa, e conosco quanto la mia città natale.

Mi affligge oltre ogni misura vedere le strade che mi sono familiari sbarrate dai cavalli di frisia in attesa dell’attacco. Non ho nemmeno bisogno di accendere la televisione: filmati di bombardamenti e notizie di carri armati mi arrivano in diretta sul telefono. Ogni mattina faccio un giro di messaggi tra i miei amici ed amiche ucraini per sapere se sono vivi. Non sempre ricevo risposta (e, se la ricevo, è straziante), ma una spunta blu su WhatsApp basta a fare la differenza tra il sollievo e l’angoscia.

Sono dunque, senza se e senza ma, a fianco del popolo ucraino nella sua lotta per la sopravvivenza e la libertà. Sono per una reazione ferma, decisa, inequivoca, all’aggressione contro l’Ucraina.

Ma mi schiero contro ogni atto che ci fa perdere la nostra anima e dimenticare i nostri valori, quelli in cui diciamo di credere e che ci dovrebbero distinguere. E così facendo, prestare il fianco alla propaganda di Putin che ci accusa di praticare doppi standard, predicare bene e razzolare male.

Dunque sì alle sanzioni; ma lo scontro di civiltà no, grazie.

Il gesto di due cantanti d’opera, una ucraina e una russa, che si abbracciano alla fine dello spettacolo, è sublime, perché spontaneo e genuino. L’alternativa imposta a un direttore d’orchestra, di scegliere tra l’abiura pubblica del suo paese e il licenziamento, no. L’assessore alla Sanità che ordina a un rinomato ospedale di interrompere la ricerca congiunta sul Covid con il corrispondente istituto russo, “in nome della pace”, è grottesco.

Fin qui potremmo limitarci a fare del sarcasmo, ed osservare che, se come diceva Talleyrand “La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari”, a maggior ragione le relazioni internazionali non sono roba per assessori e sindaci. Ma quando una università – che dovrebbe essere il baluardo del dibattito e del libero pensiero – pensa di censurare una lezione su Dostoevskij, allora si è passato il segno.

“L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento”: non è un pensiero da Baci Perugina, ma l’art. 33 della nostra Costituzione. Se crediamo davvero in questi valori, è il momento di dimostrarlo.

Questo non è il derby tra Buoni e Cattivi, ma una guerra civile europea. Ucraini e Russi non saranno forse “un unico popolo”, almeno non nel senso che intende Putin con le sue arbitrarie ricostruzioni storiche; non devono necessariamente vivere in un unico stato, come si vorrebbe ottenere con questa maldestra riedizione dell’Anschluss; ma condividono in larga parte storia, letteratura, lingua, religione – una cultura insomma. E questa, a sua volta, fa parte integrante della storia e della cultura d’Europa e della Cristianità, dimensioni che non si limitano ai confini di Ue e Nato. Questa visione globale sembra averla solo Papa Francesco, forse perché solo un sudamericano si può accorgere di quanto sono insignificanti le differenze tra gli europei.

L’attacco su Kharkiv – una città culturalmente russa – è insensato e paradossale quanto lo sarebbe un bombardamento austriaco su Bolzano. Solo la storia ce ne spiegherà il perché. Ora, in questa follia, occorre lavorare per la pace e per l’umanità delle persone.

Per cui non verso una lacrima per gli yachts degli oligarchi; Dostoevskij l’ho letto tutto, ma sinceramente non l’ho mai digerito; ma almeno lasciate stare i disabili.

“Restiamo umani”: lo ha detto Sergio Mattarella, e mai appello fu più opportuno.

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