Ne “La nuova cortina di ferro”, Soldatov e Borogan (senior fellows di Cepa e cofondatori di Argentura.ru) spiegano come il sistema di filtraggio dell’internet sovrano russo si rivelò inefficace
Questa serie racconta gli albori e lo sviluppo della censura digitale russa. Leggi la prima parte de “La nuova cortina di ferro”: Come Putin si è accorto del pericolo di un internet libero.
Nell’agosto del 1991, il nascente internet russo contribuì a diffondere un messaggio in Occidente: il putsch guidato dal Kgb non era riuscito a sopprimere il desiderio di cambiamenti democratici. Quel messaggio era veritiero, Boris Eltsin e i moscoviti scesi in piazza erano usciti vincitori.
Per due decenni, internet in Russia si è sviluppato senza il controllo del governo. A differenza della Cina, dove la censura è sempre stata parte dell’infrastruttura nazionale di internet, la Russia del presidente Vladimir Putin non ha mai costruito un Grande Firewall. Piuttosto, ha tentato di frenare passo dopo passo, con scarsi risultati.
L’approccio attendista cominciò a cambiare nel 2007. I tribunali russi iniziarono a richiedere ai fornitori internet (Isp) di impedire l’accesso ai siti vietati, opportunamente designati come estremisti. Ma gli ordini erano tutt’altro che sistematici. I siti web bloccati in una regione rimanevano accessibili in altre.
Così internet ebbe un ruolo chiave nelle proteste del 2011 e 2012 contro il ritorno di Putin alla presidenza. Decine di migliaia di persone scesero in piazza. Nessun partito o movimento politico aveva diretto queste proteste: erano tutte organizzate tramite i social media – Facebook o Vkontakte, la versione russa di Facebook.
Putin era indignato. Un mese dopo l’inizio del suo terzo mandato presidenziale, la Duma introdusse una nuova legislazione che divenne la base del primo sistema nazionale di filtraggio di internet. Questa legge creò un registro unico di siti web illegali e diede il potere di designarli a diverse agenzie governative.
Roskomnadzor (l’agenzia russa per la supervisione della tecnologia dell’informazione, delle comunicazioni e dei mass media) iniziò con la lista nera dei siti con contenuti che includevano suicidio, droga, pornografia infantile ed estremismo. Ma la definizione di estremismo rimase vaga e crebbe fino a includere qualsiasi tipo di informazione critica nei confronti del Cremlino, compresa la “propaganda del separatismo”, ma anche i casinò online, le criptovalute e i persino siti che vendevano falsi diplomi universitari.
Secondo le nuove regole, gli internet provider russi e gli operatori di telefonia mobile iniziarono a controllare quotidianamente il registro della lista nera e a bloccare i materiali proibiti. In poco tempo migliaia di siti web vennero messi a bando. Ma il sistema di filtraggio fallì. Migliaia di siti furono bloccati per errore. Per i russi era facile accedere ai siti vietati usando semplici strumenti di aggiramento come Tor (un browser più sicuro, ndr) o una Vpn (network privato virtuale, ndr). E anche se Roskomnadzor revocò l’accesso a migliaia di siti web, non riuscì a vietare i social media più popolari. VKontakte e Facebook sono diventati lo spazio pubblico usato dai russi per discutere di politica e condividere notizie.
Questo è cambiato nel marzo del 2014, dopo che le truppe russe invasero e presero il controllo della Crimea. Roskomnadzor oscurò tre importanti media indipendenti – ej.ru, grani.ru e kasparov.ru, e bandì il blog di Alexey Navalny, un importante politico dell’opposizione.
Putin aveva capito che i social media rappresentavano la più grande sfida alla narrativa del Cremlino, e lanciò una nuova offensiva contro la principale piattaforma russa VKontakte. Nella primavera del 2014, il governo prese il controllo della società. Costrinse il fondatore all’esilio e lo sostituì con un tirapiedi del Cremlino.
La stretta non funzionò come previsto. Poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina, nell’estate del 2014, i soldati russi, orgogliosi della loro missione militare nel Paese vicino, iniziarono a pubblicare foto su VKontakte. Le autorità russe continuarono a negare il coinvolgimento militare russo, ma non riuscirono a fermare il flusso di informazioni dei giovani. La presenza militare russa in Ucraina divenne chiara agli occhi del mondo, completa dei nomi dei soldati, la loro affiliazione militare e la loro esatta posizione.
Nella primavera del 2015, le autorità russe fecero un test per vedere se era possibile tagliare internet russo dalla rete globale più grande. Il tentativo fallì – il traffico continuava a scorrere in entrambe le direzioni.
Ma la censura non era l’unico obiettivo del Cremlino. Le autorità volevano anche migliorare le loro capacità di spiare gli utenti russi. Così richiesero a Google, Twitter, Facebook e altre piattaforme globali di trasferire i loro server in Russia e memorizzare i dati dei loro utenti russi nel Paese a partire da settembre 2015.
Le aziende occidentali si opposero. Riuscirono a trovare degli espedienti per sabotare l’ordine e pagarono le multe quando necessario. Nel 2016, il Cremlino bandì LinkedIn dopo che la piattaforma per professionisti non riuscì a rispettare i requisiti locali di archiviazione dei dati. Tuttavia, per ragioni inspiegabili, si trattenne dal mettere sulla lista nera Facebook o Twitter. Erano troppo popolari? Avevano fatto concessioni al governo in privato?
Nel luglio 2018 entrò in vigore una nuova legislazione repressiva, la cosiddetta “legge Yarovaya” (dal nome della parlamentare Irina Yarovaya). Richiedeva agli operatori di telecomunicazioni e internet di salvare i dati dei loro utenti, comprese le conversazioni telefoniche, i messaggi di testo, le foto e i video, e mettere le informazioni a disposizione del servizio di intelligence, l’Fsb. La maggior parte degli operatori russi si adeguò, anche se i costi di conformità causarono qualche resistenza iniziale.
Nonostante gli sforzi di Putin, divenne chiaro che il sistema russo di filtraggio di internet era inefficace. Gli strumenti di aggiramento più basilari permettevano l’accesso alle informazioni bloccate. Così il Cremlino capì che era necessario un nuovo approccio.
L’articolo originale in lingua inglese è apparso sul sito del Center for European Policy Analysis (CEPA) con il titolo “The New Iron Curtain Part 2: The Free Internet Stymies Putin”.
Andrei Soldatov è nonresident senior fellow del CEPA, un giornalista investigativo russo, ed è cofondatore ed editore di Agentura.ru, un osservatorio sulle attività dei servizi segreti russi. Si occupa di servizi di sicurezza e terrorismo dal 1999.
Irina Borogan è nonresident senior fellow del CEPA, una giornalista investigativa russa, ed è cofondatrice e vicedirettrice di Agentura.ru.