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Spionaggio e know how. Occhio all’alert dei nostri 007

Di Antonino Vaccaro

Spionaggio, know how nell’industria della Difesa e nella ricerca, attacchi cyber. C’è un’emergenza nell’emergenza segnalata in due recenti report del Dis e del Copasir e non va sottovalutata. L’analisi del prof. Antonino Vaccaro (Iese Business School)

Ancora una volta la difesa del know-how italiano emerge in due documenti recentemente pubblicati dal Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica e dal Copasir (Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica).

Si tratta, rispettivamente, della “Relazione Annuale sulla Politica per la Sicurezza della Repubblica 2021” (Relazione Dis al Parlamento) e della “Relazione sull’Attività Svolta dal1 gennaio 2021 al 9 febbraio 2022”.

Entrambi i documenti, sebbene con prospettive differenti, evidenziano l’appetibilità delle conoscenze tecnologiche, scientifiche, strategiche e culturali di organizzazioni italiane da parte di attori stranieri.

Non dimentichiamolo mai, l’Italia non è solo la seconda potenza industriale d’Europa, ma è anche un importante riferimento internazionale in numerosi campi scientifici, tecnologici e culturali. Tale patrimonio è creato, conservato e tramandato da una molteplicità di organizzazioni che includono aziende private, organizzazioni no-profit (e.g. fondazioni culturali e scientifiche), università, centri di ricerca ed istituzioni governative e statali di diversa natura.

Per inquadrare correttamente la questione dello spionaggio straniero sarebbe utile utilizzare un frame concettuale più ampio che, invece di suddividere le analisi distinguendo tra spionaggio industriale, economico-finanziario e governativo, prenda in considerazione come unità di riferimento la dimensione organizzativa.

Lo spionaggio straniero punta generalmente ad acquisire informazioni detenute da organizzazioni, identificando prima ed utilizzando strategicamente poi i punti deboli delle stesse (e.g. individui, tecnologie, aree organizzative, etc.). Credo che quest’ultimo aspetto dovrebbe attirare l’attenzione della classe dirigente italiana.

Un punto di debolezza noto a tutti è quello cibernetico. La sopracitata relazione del Dis al Parlamento fornisce alcune indicazioni che dovrebbero far riflettere. Le attività di spionaggio cyber nel 2020 hanno rappresentato il 5% degli attacchi totali, nel 2021 tale valore ha raggiunto il 23% dei casi:

“A fronte di un quantitativo rilevante di iniziative ostili cui non è stato possibile attribuire una chiara finalità (67%, in lieve aumento rispetto all’anno precedente), la cui consistenza è legata alla numerosità di azioni prodromiche ad attacchi successivi, è rimasta elevata l’attenzione intelligence sulle campagne di spionaggio (23%) condotte da gruppi strutturati, sovente contigui ad apparati governativi, dai quali ricevono linee di indirizzo strategico e supporto finanziario (cd. Advanced Persistent Threat-Apt), che hanno interessato realtà strategiche nazionali, in primis quelle operanti nei settori delle telecomunicazioni e dell’industria della difesa.”

La costituzione dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale rappresenta un importante passo avanti del nostro Governo. Non bisogna dimenticare, però, che lo sforzo per la protezione del know-how nazionale non si può limitare alle attività top-down (ovvero le attività svolte dalle Istituzioni Nazionali).

Vorrei ricordare, ancora una volta, i rischi per le piccole e medie imprese italiane che troppo spesso sottovalutano l’importanza della prevenzione della cyber sicurezza e la rilevanza del know-how in loro possesso.

Una survey condotta dal Center for Business in Society dello IESE Business School ha mostrato che meno del 5% delle piccole e medie imprese italiane considera il cyber-spionaggio tra i principali rischi per le proprie attività di business e/o contempla tale problema nei modelli di compliance. È un numero assai basso che chiaramente richiede una riflessione di ordine strategico e soprattutto culturale.

Un punto di debolezza meno noto al largo pubblico riguarda, invece, le difficoltà di finanziamento del sistema della ricerca italiana. Riporto un estratto della sopracitata relazione del Copasir (pp. 67):

“Un ambito rispetto al quale si è evidenziata la necessità di intervenire al fine di introdurre apposite tutele e meccanismi di protezione dell’interesse nazionale è quello dell’università e della ricerca. Attraverso le informazioni acquisite dal Comitato è risultato infatti crescente l’interesse da parte di attori statuali stranieri, in particolare cinesi, nei confronti del mondo accademico italiano, in special modo per quegli ambiti nei quali più avanzata risulta l’attività di ricerca da questi condotta. Diverse sono le modalità con le quali viene instaurato tale rapporto. Talvolta si tratta di legami tra università italiane e istituti per la diffusione della cultura del Paese straniero interessato. In altri casi si traduce nella costituzione di accordi di collaborazione tra aziende straniere, spesso sottoposte al controllo statale, e atenei italiani. A fronte del finanziamento delle attività di ricerca erogato da parte del partner privato, ci si espone al concreto rischio di una sottrazione di tecnologia e know how. Tale condizione è spesso favorita dalla diffusa carenza di fondi da destinare alla ricerca sofferta dalle università italiane. Inoltre, questo approccio adottato da alcune aziende straniere rischia di costituire una sorta di «cavallo di Troia» in grado di aggirare i paletti fissati dal golden power rispetto alla penetrazione in alcuni settori industriali strategici. Appare quindi opportuno avviare una riflessione che porti all’adozione di una disciplina in grado di tutelare l’interesse nazionale anche rispetto a tali rischi.”

Quanto appena riportato rappresenta in realtà una strategia comunemente utilizzata dalla Cina per acquisire rapidamente know-how tecnologico e scientifico. Basta ricordare l’arresto nel 2020 del prof. Charles Lieber, uno specialista in nanotecnologie dell’Università di Harvard, o quello del prof. Gang Chen del MIT di Boston nel 2021. In entrambi i casi i professori hanno usufruito di finanziamenti “sospetti” del Governo cinese favorendo la fuga di know-how tecnologico e scientifico di grande valore.

È evidente che tale questione avrà bisogno di azioni di prevenzione che, ancora una volta, richiederanno non solo un’azione top-down, ma anche la responsabilizzazione di tutti gli attori nazionali.

I due estratti sopra riportati rappresentano chiaramente due facce di un problema ben più ampio e complesso.

Vorrei concludere questa breve riflessione ricordando che la questione dello spionaggio richiede prima di tutto un cambio culturale.

Il riconoscimento del valore del know-how a livello organizzativo, settoriale e nazionale è il primo passo per costruire un adeguato sistema di difesa contro lo spionaggio a danno delle nostre organizzazioni (governative, private, etc.). Solo attraverso l’integrazione degli sforzi istituzionali e di quelli organizzativi, di ogni livello e tipo, si potrà conseguire tale risultato, fondamentale per sostenere la competitività del nostro Paese.

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