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Ecco perché Telegram non è davvero sicuro, né criptato

No, Telegram non è veramente sicuro. Ecco perché

L’app (nata) russa gode della fama immeritata di essere un baluardo della libertà d’espressione e un servizio più privato delle alternative. Ma non si deve confondere il lassismo nella moderazione con la privacy, che nel caso di Telegram è ben più scarsa di quanto si creda. E anche il fondatore non si azzarda a garantire

Telegram è molte cose assieme. L’applicazione fonde elementi di messaggistica privata e social networking, con gruppi e canali da centinaia di migliaia di utenti. Anche se la definizione di cosa sia questa piattaforma tende a variare a seconda di chi la usa, e dove. È un’alternativa più “accessoriata” di WhatsApp ma anche il servizio prediletto di gruppi marginali, complottisti ed estremisti in cerca di un porto sicuro.

Per altri Telegram è una fonte di notizie, o un mercato nero. È utile ai gruppi terroristi, ma è anche un semplice modo di rimanere in contatto con i propri cari. Essendo poco moderato, è una panacea per la diffusione di propaganda e disinformazione. Ma in luoghi come l’Ucraina è un sistema per condividere informazioni a livello locale, mantenersi in contatto con i familiari distanti e rimanere aggiornati sull’andamento della guerra.

Il minimo comun denominatore della percezione generale è che Telegram offra un livello di protezione maggiore rispetto ai canali di comunicazione più mainstream: Facebook, WhatsApp e Instagram (tutte di casa Meta), ma anche Skype, Viber e quant’altro. Quest’aura di privacy e la moderazione praticamente inesistente hanno contribuito a rendere il servizio popolare tra coloro che per un motivo o per l’altro non si fidano dei mezzi più diffusi, o si sono visti censurare dei contenuti su altri servizi.

Quale privacy?

L’applicazione stessa si auto-promuove sugli app store come “sicura” e “privata”. Ed effettivamente offre funzioni come i messaggi effimeri (con un timer di autodistruzione) e crittografia end-to-end. Ma gli scambi non sono né privati, né criptati di default, come invece lo sono su WhatsApp. Per renderli tali in Telegram bisogna attivare manualmente la funzione, che comunque non vale per i messaggi inviati sui gruppi.

A ogni modo, tutti i contenuti che transitano dai server di Telegram ci lasciano la loro impronta. In chiaro (l’azienda conserva le chiavi di decriptazione, a differenza di app come Signal) e definitivamente fuori dalla portata del mittente. Per verificare basta scaricare l’applicazione su un altro dispositivo ed eseguire l’accesso: tutti i dati, i messaggi e i contenuti sono immediatamente disponibili anche se la fonte primaria è offline, semplicemente perché è tutto salvato sui server.

Se quei server sono in un Paese autocratico, si può star certi che le autorità possano accedervi. Vale anche in un Paese democratico dove i controllori richiedono e ottengono un mandato legittimo. Ma coloro che credono che Telegram possa essere l’antidoto al controllo politico dovrebbero ricordarsi che l’app continua a funzionare in Russia – cosa impossibile per una piattaforma che non si adegua alle nuove leggi anti “fake news” (leggi: propaganda) del Cremlino.

La parabola di Durov

Il fondatore di Telegram Pavel Durov, che ha creato anche VKontakte (il social media dominante in Russia), ama raccontare la sua storia di resistenza alle autorità russe per rassicurare i suoi utenti. Nei primi anni del 2010 i servizi segreti russi fecero pressione per farsi consegnare i dati degli ucraini che si opponevano al presidente filorusso Viktor Yanukovich. Durov rifiutò, ma finì per perdere il controllo della sua creatura e fuggire dal Paese (oggi è cittadino francese).

Più tardi, nel 2013, Durov fondò Telegram, che ora ha la sua sede formale a Dubai. Nel 2018 il governo russo si è mosso per chiuderla, ma ci ha ripensato nel 2020. Oggi è la seconda più grande piattaforma di messaggistica della Russia dopo WhatsApp, con almeno 38 milioni di utenti attivi al mese (a livello globale sono 500 milioni). Ed è anche la piattaforma principale per discutere della guerra in Ucraina.

Lunedì, in un post su Telegram, Durov (che ha radici ucraine da parte di madre) ha rispiegato la sua storia e dichiarato che difende sempre gli utenti a qualunque costo. “Il loro diritto alla privacy è sacro”, ha scritto, “ora più che mai”. Non esattamente la stessa cosa di una promessa inequivocabile di non consegnare i dati al governo russo, né una garanzia che i dati degli utenti siano al sicuro da cibercriminali. E nonostante la sua lodevole storia di resistenza, Durov non ha mai giurato sull’assoluta impenetrabilità del suo servizio.


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