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Aderire al Trattato di Roma per fermare le guerre

La Corte penale internazionale è uno strumento essenziale per dare giustizia alle vittime dei crimini di guerra, ma può essere anche un deterrente per contenere le escalation militari delle crisi diplomatiche. Specie se le superpotenze ne riconoscessero la giurisdizione. L’intervento di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law, Università di Chieti-Pescara

L’impotenza delle Corti internazionali di fronte alla Machtpolitik

L’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite conferisce al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il potere di istituire tribunali internazionali per investigare e sanzionare genocidi e crimini di guerra. Tuttavia, come le altre attività del Consiglio di sicurezza, anche l’istituzione di queste corti è soggetta agli interessi geopolitici dei singoli componenti. Questo impedisce la reale effettività di uno strumento importante per il rispetto della legalità internazionale.

Agli ad hoc tribunals delle Nazioni Unite si affianca la Corte penale internazionale, che non è un organismo delle Nazioni Unite essendo stata istituita con il Trattato di Roma. Anche in questo caso, però, né Russia né Stati Uniti – i due attori della crisi ucraina – sono sottoposti alla giurisdizione della Corte. Nessuno di loro, infatti, è fra le nazioni che hanno sottoscritto e ratificato il Trattato di Roma. Anche in questo caso, dunque, un altro strumento importante per il rispetto della legalità internazionale è privo di efficacia proprio nei confronti di quei Paesi che, avendo lo status di superpotenza, dovrebbero “dare il buon esempio” e autolimitare il proprio potere sottomettendosi al primato della legge.

Il ruolo geopolitico del Rule of law e della Corte penale internazionale

Questa conclusione non è così ingenua come potrebbe sembrare perché delinea molto chiaramente il confine fra (geo)politica e diritto ed evidenzia la sottoutilizzazione di quest’ultimo come strumento per la gestione delle relazioni internazionali.

La sottoposizione delle superpotenze all’autorità di un tribunale penale indipendente, infatti, sarebbe un elemento di deterrenza nella costruzione di narrative pubbliche finalizzate a creare un’apparenza di legalità dietro la quale nascondere decisioni basate sostanzialmente su rapporti di forza e non di diritto.

Un sistema di contenimento che includesse le superpotenze basato su trattati e accordi internazionali contro aggressioni illegittime renderebbe più difficili attuare “fughe in avanti” se non al costo di porsi chiaramente ed inequivocabilmente dalla parte sbagliata. Questo consentirebbe inoltre, quando oramai gli scenari fossero diventati più critici, di usare la legalità internazionale come strumento di netta demarcazione fra le parti in causa – o in conflitto.

Non si tratta, in altri termini, di vagheggiare un astratto primato del diritto in nome di principi avulsi dalle concrete e spesso brutali necessità della politica. Al contrario, si tratta di riconoscere che il diritto è ed ha una funzione (geo)politica, e quindi andrebbe utilizzato come tale anche per prevenzione e deterrenza.

Diritto, politica e “stato di emergenza”

La scarsa lungimiranza nel riconoscere il ruolo geopolitico del diritto – il lawfare – è evidente nei momenti di crisi, dove l’uso tecnico delle norme viene sistematicamente accantonato “in nome dell’emergenza”.

Questa opzione, già praticata nel caso della pandemia, è tornata sul tavolo dei decisori anche in rapporto alle valutazioni strategiche per la gestione della crisi ucraina. Così, l’emergenza – o l’emergenza di evitare l’emergenza – azzerano la possibilità di qualsiasi riflessione sulla necessità di seguire le forme corrette per raggiungere obiettivi sulla cui sostanza non può esserci discussione.

Questo uso grossier del diritto comunitario e nazionale ha un effetto boomerang sul posizionamento ideologico dell’alleanza occidentale e rischia di depotenziare il sostegno diffuso alle scelte degli esecutivi.

Se, infatti, democrazia, libertà e rule of law sono i pilastri degli ordinamenti liberali, è nei momenti di crisi che questi pilastri dovrebbero essere rinforzati per sostenere le decisioni politiche. Come è stato rilevato, infatti da un lato “i governi hanno diritto ad avere mano libera nel determinare la loro agenda politica”, ma dall’altro “devono essere soggetti a un controllo per evitare che non si abusi della libertà”. “Affermando l’ineluttabilità dello stato di diritto rispetto ai poteri di polizia, giudiziari e militari per proteggere i cittadini dagli attacchi alla sicurezza nazionale, l’abuso di tali poteri può essere controllato”.

Adottare scorciatoie giuridiche in nome dell’emergenza – specie quando c’è ancora margine per seguire la strada maestra della Legge – consente innanzi tutto all’avversario di stigmatizzare l’incoerenza di chi, ciceronianamente, si dichiara servo della Legge per poter essere libero, ma in realtà le si sottrae. Inoltre, consente una strumentalizzazione del dibattito politico interno dal punto di vista della dubbia costituzionalità delle scelte, riducendo l’efficacia del Parlamento e dell’azione dell’esecutivo.

La Corte penale internazionale come strumento geopolitico

Di certo non accadrà, ma sarebbe un segno di grande lungimiranza e pragmatismo inserire nei negoziati per il superamento della crisi ucraina anche l’adesione al Trattato di Roma dei Paesi belligeranti e dei loro sostenitori che non ne fanno ancora parte.

Come detto, una scelta del genere aumenterebbe le opzioni diplomatiche nella gestione di futuri conflitti. Inoltre, in termini di pura realpolitik, offrirebbe la possibilità di individuare (o costruire) un modo per separare i destini di uno Stato da quelli di un esecutivo (o dei singoli componenti).

È utile, a questo proposito, leggere l’analisi del fenomeno del “capro espiatorio” che il professore Maurizio Catino svolge in Trovare il colpevole (Il Mulino, 2022): “Dire che un presidente dovrebbe pensare a come evitare che gli siano attribuite colpe per eventi derivanti dal suo operato significa dire che il presidente deve sempre pensare a cosa accadrà quando (non se) le cose andranno male. I politici sono motivati più dal desiderio di evitare la colpa per azioni impopolari che dalla volontà di rivendicare il merito per quelle popolari. In coerenza con la prospect theory di Kahneman e Tversky [1979], ciò deriva dal «pregiudizio della negatività» degli elettori, ovvero la loro tendenza a essere più sensibili alle perdite reali o potenziali che ai guadagni.

Gli incentivi a evitare la colpa inducono i politici ad adottare una serie di strategie politiche, tra le quali: la limitazione dell’agenda, ovvero il non prendere in considerazione scelte potenzialmente costose; il «passare la patata bollente», forzando altri a prendere decisioni politicamente costose; il «saltare sul carrozzone» del vincitore, supportando alternative politiche più popolari. I politici prenderebbero dunque decisioni diverse da quelle che prenderebbero se fossero interessati principalmente a perseguire una buona politica o a massimizzare le opportunità di rivendicazione del merito. Alle strategie di deviazione della colpa si aggiunge quella di creare un capro espiatorio, interno o esterno al proprio contesto organizzativo, per deviare così la colpa verso altri”.

Queste considerazioni sono relative a comportamenti individuali, ma sono ragionevolmente applicabili anche alle strutture complesse in quanto tali e dunque anche agli Stati. Ciò che serve —e torniamo all’utilità della Corte penale internazionale— è lo strumento per attuarle.

Conclusioni

Le corti internazionali incaricate di giudicare su genocidi e crimini di guerra operano in modo molto limitato per via dei veti reciproci opponibili dalla superpotenze e dalla loro mancata ratifica del Trattato di Roma sulla Corte penale internazionale.

Queste scelte riflettono la volontà di attuare le opzioni strategiche e tattiche senza limitazioni formali e senza il rischio di dover subire – o far subire ai propri operatori – sanzioni da parte della comunità internazionale. In questo modo, tuttavia, i principi fondanti delle democrazie occidentali vengono ridotti a un simulacro.

Considerare il diritto come un orpello inutile già quando le crisi internazionali non sono ancora degenerate in un conflitto armato multilaterale è una scelta miope che, in una democrazia liberale, riduce le opzioni a disposizione dei decisori e favorisce la propaganda avversaria.

Estendere l’adesione al Trattato di Roma può essere uno strumento importante per (tentare di) evitare l’escalation e (contribuire a) gestire la de-escalation dei conflitti, consentendo un intervento intermedio prima del passaggio al conflitto aperto.

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