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Serve un Ttip 2.0, subito. L’appello di Crolla (AmCham)

La guerra con la Russia richiede nuove scelte, uno spostamento ancora più marcato del baricentro a Occidente e, di conseguenza, un rilancio del Ttip, anzi di un Patto transatlantico per la crescita e l’occupazione. L’intervento di Simone Crolla, consigliere delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy

Torna all’ordine del giorno dell’agenda atlantica il Transatlantic Trade and Investment Partnership, meglio conosciuto come Ttip o Trattato transatlantico di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, dopo che il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha lanciato messaggi di apertura su un accordo ‘congelato’ ormai da qualche anno più per volontà di Francia e Germania che degli Stati Uniti. Un agreement che nelle sue più nobili intenzioni sarebbe servito ad allineare le economie europea e statunitense, riducendo i dazi, omologando gli standard normativi e favorendo gli scambi commerciali sull’asse transatlantico. Come AmCham Italy ne abbiamo da sempre sostenuto la sua importanza, nonostante a un certo punto fosse addirittura stato definito come “obsoleto e non più rilevante”.

Tuttavia, da quando impazza la guerra in Ucraina non esistono binari morti. Un’accelerazione storica senza precedenti nel ricompattare il mondo occidentale intorno ai suoi principi fondanti. Sono pienamente convinto che l’attuale quadro geopolitico imponga la necessità di resuscitare un accordo di libero scambio tra Paesi che condividono e promuovono valori inossidabili che stanno alla base delle nostre società, che credono nella libertà e nella democrazia.

D’altronde, come sempre, nei periodi di buio gli Stati Uniti sono al fianco dell’Europa. Da Bruxelles, il presidente Joe Biden ha annunciato che gli Stati Uniti supporteranno il popolo ucraino con donazioni pari a un miliardo di dollari e accoglieranno 100.000 profughi. Nel silenzio e nell’operosità di cui sono capaci, come dimenticarsi del prezioso supporto, pari a 100 milioni di dollari, ricevuto dal nostro Paese durante l’emergenza pandemica. Oltre a questo, AmCham Italy, in accordo con la Missione diplomatica statunitense in Italia e la Missione diplomatica italiana negli Stati Uniti, ha coordinato e indirizzato le generose donazioni, sia economiche che in-kind, effettuate dalle corporation americane presenti in Italia. Una straordinaria solidarietà espressa attraverso i quasi 50 milioni di euro donati.

Condivisione di valori che si traduce in condivisione economica. D’altronde, il blocco transatlantico vale 16 milioni di posti di lavoro, 6 trilioni di dollari di merci e servizi commerciati ogni anno e un terzo del Pil globale, anche se per noi italiani la strada da percorrere è ancora lunga, anche se la situazione, negli anni, è migliorata. A partire dal 2008, anno della crisi finanziaria globale, gli Fdi (investimenti diretti all’estero) americani in Italia sono passati da 27,7 miliardi di dollari agli attuali 31,1 miliardi.

Troppo pochi se comparati ai principali concorrenti europei: la Spagna è a quota 38,5 miliardi, la Francia a 91,2 miliardi e la Germania addirittura a 162,4 miliardi (oltre a investimenti iconici, come la megafabbrica di Tesla alle porte di Berlino), in un’Europa che attrae circa il 60% dello stock Usa investito globalmente, oltre tre volte e mezza di quanto destinato all’Asia-Pacifico. In compenso, è stata sorprendente la crescita di Fdi italiani negli Stati Uniti, con un valore passato da 19,5 miliardi di dollari (nel 2008) a 31,6 miliardi (+62%).

I dati relativi al flusso commerciale sono migliori: storicamente il dato italiano è stato superiore a quello americano. Il nostro export vale 61 miliardi di dollari (primo mercato extra europeo) e riguarda principalmente macchinari, autoveicoli, pharma e food; quasi un terzo dell’import, che si attesta a 21,7 miliardi di dollari (entrambi i Paesi, nel 2020, hanno registrato un calo che oscilla tra il 13 e il 16%, a testimonianza dell’importanza e dell’interconnessione tra le due economie anche nell’annus horribilis del Covid-19).

La guerra con la Russia richiede nuove scelte, uno spostamento ancora più marcato del baricentro a Occidente e, di conseguenza, un rilancio del Ttip. Un nuovo accordo, sempre più maturo nella tragica attualità del periodo che stiamo vivendo, andrebbe ovviamente ridisegnato per adattarlo alle contingenze di questa fase storica. Tuttavia, come dimostrato più volte dall’avvento della pandemia e dell’invasione russa in Ucraina, il blocco occidentale ha saputo compattarsi – anche inaspettatamente – nelle difficoltà.

Basti pensare che dei Paesi del G20 (che, alla luce della situazione, dovrebbe diventare G19 con l’esclusione della Russia), ben sei sarebbero compresi nel Ttip: Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e – seppur non propriamente uno Stato – Unione europea. Interessante notare che tre di questi – Francia, Regno Unito e Stati Uniti – siano anche membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Un asse transatlantico rafforzato, dunque, nel rispondere rapidamente alle esigenze del momento. Per esempio, durante il vertice di questi giorni a Bruxelles si è deciso di incrementare le spedizioni di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti all’Europa e di investire in soluzioni per creare idrogeno pulito e rinnovabile, così da aumentare la sicurezza economica energetica e nazionale e ridurre la dipendenza (e il potere negoziale) dalla Russia. Non solo, nelle due giorni in Belgio si è compiuto anche un importante passo avanti sul flusso di dati condivisi (il 55% dei dati veicolati a livello mondiale è proprio tra le due sponde dell’Atlantico), che facilitano 7.100 miliardi di dollari l’anno di relazioni economiche tra Stati Uniti e Unione europea, per favorire una protezione senza precedenti per la privacy e la sicurezza dei cittadini, migliorando il quadro della Privacy Shield, promuovendo la crescita e l’innovazione e aiutando le piccole e grandi aziende a competere su scala globale.

Giusto qualche esempio per mostrare quanto sia evidente la necessità di ristabilire una rinnovata alleanza transatlantica e riscrivere, partendo dalle ceneri dell’ormai archiviato Ttip, un accordo geo-economico (e geopolitico) di libero scambio che stimolerebbe (e tutelerebbe) il principale blocco commerciale ed economico mondiale. Nell’ottica di questa comunione d’intenti, per non definirlo con un freddo acronimo, sarebbe più opportuno rinominarlo “Patto transatlantico per la crescita e l’occupazione”, evidenziando le caratteristiche di benessere che potrebbe generare.

Credo che i tempi siano maturi per formalizzare un nuovo orizzonte geo-economico e geopolitico, da tradurre in un nuovo accordo, apertamente filoatlantico ed europeista, che consentirebbe all’Occidente di restare protagonista nello scacchiere mondiale (e all’Unione europea di avere voce in capitolo nei principali dossier strategici). In questo tempo di sfide globali senza precedenti, che solo insieme possiamo superare, l’intesa tra Washington e Bruxelles è più importante che mai, per rinnovare e accrescere il capitale di fiducia su cui si fonda la comune azione a favore della sicurezza, di un ordine internazionale basato su regole, di uno sviluppo autenticamente sostenibile, della tutela dei diritti umani e di un’unanime condanna all’invasione russa dell’Ucraina.


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