Scrivere un tweet in inglese o francese non significa essere padroni di una lingua straniera, però è in questo momento il segnale simbolico di appartenere a una comunità più ampia, quella europea, e di non volersi chiudere nel recinto nazionale. L’analisi di Domenico Giordano (Arcadia)
Twitter compie 16 anni. Era esattamente il 21 marzo del 2006 quando Jack Dorsey, giovane informatico del Missouri che da qualche mese ha abbandonato la sua creatura, fece volare per la prima volta “Larry”, l’uccellino azzurro simbolo identitario della piattaforma social diventata in questi anni fondamentale per la comunicazione politica contemporanea e, nonostante Putin abbia deciso di bloccarne l’accesso, è il social network che riesce a raccontare prima e meglio di altre piattaforme il conflitto in corso tra la Russia e l’Ucraina.
Ogni giorno vengono pubblicati 500 milioni di tweet, pari a 6.000 tweet al giorno e tra questi ci sono pure quelli dei nostri social politici che dopo un’infatuazione prolungata con altre piattaforme stanno gradualmente riscoprendo il valore reputazionale di Twitter.
Con l’invasione russa però, è emersa una differenza sostanziale non trascurabile, tra Enrico Letta e tutti gli altri leader nazionali: infatti, il segretario del Partito democratico è l’unico ad aver scelto di tuittare in diverse circostanze anche scegliendo di scrivere in inglese e francese, anzi il primo tweet pubblicato proprio nel giorno dell’invasione è addirittura scritto in lingua ucraina.
Anche dopo il discorso del presidente Zelensky al Parlamento italiano il tweet di Enrico Letta è stato scritto in inglese.
In tutto dall’inizio del conflitto ha pubblicato 4 volte in francese e ben 14 tweet invece in inglese, non solo per manifestare la solidarietà della comunità del Partito democratico verso il popolo ucraino o per condannare l’aggressione, ma anche per dettare ai partner europei la linea da seguire per contrastare unitariamente la Russia di Putin. Tutti gli altri leader politici invece hanno preferito continuare a dialogare e scrivere in italiano.
Fatta eccezione per i due tentativi a testa da parte di Matteo Renzi, il 24 febbraio e il 2 marzo, e del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, il 27 febbraio e il 2 marzo, che hanno tuittato in inglese, o quello timido di Carlo Calenda pubblicato il 25 marzo, per la restante parte nessuno dei nostri leader ha colto l’opportunità di ritagliarsi un’audience transalpina: né Giuseppe Conte, né tanto meno Giorgia Meloni e Matteo Salvini che sono rimasti legati alla dimensione nazionale.
Nella migliore delle ipotesi, invece, si è limitati a rituittare i post di Zelenskyj, di Ursula von der Leyen, di Joe Biden o di altri leader occidentali.
La scelta poliglotta di Enrico Letta, condivisibile o meno, rappresenta comunque una rottura significativa di quella diffusa percezione europea che i leader politici nostrani fossero in difficoltà ogni volta erano chiamati a esprimere idee o intervenire nei consessi internazionali. Ovviamente scrivere un tweet in inglese o francese non significa essere padroni di una lingua straniera, però è in questo momento il segnale simbolico di appartenere a una comunità più ampia, quella europea, e di non volersi chiudere nel recinto nazionale.