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O tutti aperti, o tutti chiusi. Svolta Ue sugli appalti pubblici

Il Dma è realtà. Cosa cambia (e quando) per utenti, pmi e Big Tech

Intesa raggiunta ai vertici europei (dopo dieci anni) sulla creazione di uno strumento sugli appalti internazionali, da usare contro quei Paesi extraeuropei che partecipano agli appalti pubblici ma non aprono i loro mercati

Dopo un decennio di limbo burocratico, l’Unione europea si appresta ad adottare una contromisura per i Paesi non-Ue che approfittano dell’accesso agli appalti pubblici europei, ma non ricambiano aprendo il proprio mercato ai competitor. Sotto l’egida della presidenza francese, Parlamento europeo e Stati membri hanno trovato un accordo per chiudere la pratica.

Il testo finale, approvato all’unanimità, permetterà la nascita dello strumento sugli appalti internazionali (international procurement instrument) nell’arco del 2022. “Disporremo di uno strumento efficace per penalizzare i Paesi che non aprono abbastanza i loro mercati pubblici agli europei”, ha dichiarato con evidente soddisfazione il francese Franck Riester, segretario di Stato all’economia con delega al commercio estero; “l’Europa naive è il passato”.

Secondo il nuovo testo, la Commissione dovrà indagare caso per caso e tentare di risolvere le dispute commerciali in maniera amichevole, tramite diplomazia e dialogo. In caso di fallimento, Bruxelles potrà imporre sanzioni economiche o addirittura vietare alle aziende dei Paesi terzi l’accesso alle gare d’appalto pubbliche degli Stati membri. Quando verrà approvato, il nuovo strumento costituirà la risposta europea al problema annoso della parità di condizioni.

Le nuove regole, spiega Euractiv, varrebbero per i governi centrali (nonché qualsiasi autorità locale che ricomprenda 50.000 o più persone) e si applicherebbe alle gare d’appalto per lavori e concessioni (dai 15 milioni di euro in su), nonché a quelle per beni e servizi (da almeno 5 milioni). Sono previste esenzioni nel caso sia solo un Paese a fare offerte, o in casi di interesse pubblico prevalente, come per progetti relativi ai sistemi sanitari.

Secondo la Commissione, gli appalti pubblici rappresentano in media il 10-20% del Pil di un Paese e ammontano a un mercato mondiale da 8 mila miliardi di euro. “Questo mette fine alla lunga lista di esempi evidenti in cui gli offerenti dei Paesi terzi vincono ricchi contratti pubblici in tutta l’Ue mentre i loro mercati nazionali sono di fatto off-limits per gli offerenti dell’Ue”, ha detto Daniel Caspary, uno degli europarlamentari responsabili di questo dossier.

I mercati degli appalti pubblici europei sono generalmente aperti, ma spesso gli Stati terzi che partecipano alle gare non restituiscono il favore per proteggere e promuovere le proprie aziende domestiche. In più l’Organizzazione mondiale del commercio non si è rivelata efficace nel risolvere le diatribe multilaterali emerse da questo squilibrio; secondo gli analisti di Bruegel ci si può aspettare che il potere dell’ente regredisca ancora e che le potenze commerciali si muovano unilateralmente per difendere i propri interessi.

Il contesto ha indotto un ripensamento riguardo alle porte spalancate del mercato più grande al mondo. La Commissione europea aveva proposto lo strumento già dieci anni fa, ma le resistenze dei singoli Stati ne hanno congelato il progresso fino al 2019, anno in cui la commissione di Ursula von der Leyen ha deciso di mettere a frutto le (dolorose) lezioni degli ultimi anni. Questa rinnovata spinta verso il fair play economico fa seguito ai negoziati per la Brexit, gli scontri con gli Stati Uniti di Donald Trump e anni di vantaggi concessi, ma mai corrisposti, dalla Cina.

Proprio Pechino – le cui aziende spesso irrompono nei mercati europei, spalleggiate dai fondi statali, in maniera assolutamente anticompetitiva – sembra essere il principale obiettivo di questo nuovo strumento: realtà come Huawei hanno avuto ampio accesso agli appalti per la costruzione delle reti internet, senza che le europee Nokia ed Ericsson potessero competere in Cina.

Le nuove regole andranno ad affiancarsi al cosiddetto “martello” anti-coercizione economica, la cui approvazione è stata a sua volta accelerata dagli episodi di “bullismo economico” cinese nei confronti della Lituania, basato su fondamenti prettamente politici (vale a dire, la questione dell’indipendenza taiwanese).


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