Anche se la Russia fallisse in Ucraina, bisognerà negoziarci sui temi fondamentali del pianeta: cambiamento climatico e sicurezza alimentare. Meglio prepararsi alla tempesta in arrivo. Comunque finisca l’invasione. Il commento di Dario Quintavalle
Se si continua a cercare una logica nella guerra “in” Ucraina, vale a dire se si continua a pensare il conflitto come uno scontro tradizionale tra due Paesi, la logica semplicemente non c’è.
Putin non sta facendo tutto questo casino per qualche chilometro di territorio in più. Non può certo immaginare di presentarsi come il liberatore dei russi bombardando le città russofone – e fino a poco tempo fa, russofile – dell’Ucraina. Si sta svenando per ottenere con la forza quello che avrebbe potuto avere, a minor prezzo, comprando con la corruzione, come successe in Crimea nel 2014, quando la flotta ucraina passò alla Russia a suon di mazzette.
Ma l’Ucraina non è la posta in gioco, solo la sfortunata scacchiera di un gioco che la sovrasta. Putin l’ha distrutta – come si fa con un ponte, per mettere delle distanze – solo per ricordare all’Occidente, agli Stati Uniti, e all’Europa, che facevano orecchie da mercante, che con la Russia, piaccia o no, presto o tardi bisogna farci i conti.
Per cui se si rinuncia alla diplomazia, con l’idea che si possa sconfiggere la Russia sul campo e poi marginalizzarla per sempre nell’angolo dei cattivi, siamo fuori strada. Così pure è un grave malinteso interpretare il tema della sicurezza solo nell’accezione militare del termine, quando ce ne sono molti altri: la sicurezza alimentare, per esempio, che preoccupa non poco l’Africa.
Greta, chi era costei? Prima della pandemia, la nostra principale ossessione era il cambiamento climatico. “Preferite la pace o il condizionatore acceso tutta l’estate?” ci ha chiesto il premier Mario Draghi. Naturalmente, la pace. Ma le nostre estati sono sempre più torride e il condizionatore ha un suo perché.
L’Africa, con la desertificazione, e le masse migratorie che produce, è davanti a casa nostra, non davanti a Mosca. Possiamo illuderci che la Russia esca presto dall’Ucraina, battuta e con le pive nel sacco: non accadrà. Ma anche una eventuale (auspicabile) sconfitta militare non la renderebbe certo un Paese marginale.
Aveva un bel dire Barack Obama, quando definiva la Russia una semplice “potenza regionale”: se la ‘regione’ si estende su due continenti e l’Artico, va presa sul serio. La Russia è un Paese continentale dal clima rigido che nella sua storia ha sempre cercato sbocchi al mare: San Pietroburgo, Odessa, Sebastopoli. Se i russi d’estate si affollano sulle scogliere della Crimea, è perché le loro spiagge più lunghe si affacciano sul Mar Glaciale Artico.
Ed ecco che il suo scongelamento apre inedite prospettive: già oggi è ipotizzabile far navigare merci dalla Cina all’Europa sulla rotta polare. Quello che è l’incubo dei paesi temperati potrebbe essere la sua fortuna: più spazi per l’agricoltura, minori difficoltà nell’estrazione di minerali e di altre materie prime in Siberia. Dal cambiamento climatico ha solo da guadagnare. Difficile pensare di risolverlo senza il suo concorso, visto che è anche il 4° paese produttore di gas serra a livello mondiale.
Pensiamo alla Russia come un petrostato, dipendente dalla vendita di energia (una “stazione di servizio mascherata da Paese”, disse John McCain). Invece già oggi, grazie alle sanzioni, l’export del suo settore agricolo è da record. Figuratevi un domani.
Se gli italiani, dunque, si trovano nella scelta tra la pace e l’aria condizionata non è per loro colpa, o egoismo, ma per scelte e soprattutto non-scelte politiche, urbanistiche e energetiche fatte in tempi lontani e recenti. A queste bisogna rimediare, non scatenare la corsa agli armamenti.
Nel 1974 le nostre città tornarono ai pedoni nelle domeniche dell’austerity. Gli sceicchi ci avevano suonato la sveglia, e i Paesi più avveduti cominciarono a investire su trasporti pubblici e metropolitane: noi no.
Il Covid ha avuto l’unico merito di restituirci città vivibili: qualche buontempone ha pensato che la nuova mobilità si potesse costruire coi monopattini e le ciclabili. Bene, fino allo scorso anno io abitavo a Ostia, quartiere di Roma sul mare: con l’abolizione dello smart-working sono dovuto tornare a casa di mio padre in centro, visto che il trenino Roma-Lido, croce dei pendolari e premio Caronte di Legambiente per innumerevoli anni consecutivi, è morto del tutto. 45km da casa a lavoro, e ritorno, nella stessa città, erano due ore di macchina al giorno, e, mi spiace: in bici o in monopattino non ce la facevo proprio.
Se dunque l’alternativa è tra la pace e i condizionatori, scelgo la pace: ho una magnifica collezione di ventagli giapponesi, e ne farò sfoggio orgoglioso. Ma se è tra comprare più carri armati, o più treni e tram, ecco, io preferirei investire sui secondi.