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The politics and the economics delle elezioni francesi

Si parla poco di the economics delle imminenti elezioni. I programmi economici dei due candidati alla presidenza e dei gruppi e movimenti che si contengono gli scranni dell’Assemblea Nazionale avranno, invece, un impatto significativo sull’Unione europea e sui Paesi più vicini alla Francia

Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, si usava esaminare the politics (gli aspetti politici) e the economics (gli aspetti economici) di un evento, spesso in saggi a quattro mani in cui avevano lavorato insieme un politologo ed un economista. Successivamente, la political economy mise insieme, in qualche modo, i due elementi. Nata e diffusa negli Stati Uniti, venne portata in Italia da Pier Carlo Padoan e Paolo Guerrieri, di cui si ricorda il libro del 1989 Political Economy of European Integration: Markets and Institutions pubblicato da Rowman & Littlefield.

Domenica, i francesi andranno al secondo turno delle elezioni presidenziali e per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale. I risultati del voto non riguardano solamente i nostri vicini sull’altra costa del Monte Bianco, ma il futuro della costruzione europea: si contrappongono due concezioni molto differenti (ove non addirittura contrapposte) del futuro dell’Europa e delle misure che Parigi prenderà nel breve e nel medio periodo rispetto alle istituzioni europee. Questo è l’aspetto principale di the politics della imminente chiamata alle urne. Aspetto che da settimane viene sviscerato sulla stampa in tutte le sue componenti.

Si parla poco di the economics delle imminenti elezioni. I programmi economici dei due candidati alla presidenza e dei gruppi e movimenti che si contengono gli scranni dell’Assemblea Nazionale avranno, invece, un impatto significativo sull’Unione europea e sui Paesi più vicini alla Francia.

Per i francesi l’andamento dell’economia è il tema principale delle elezioni. In molti hanno disertato il primo turno, al quale il partito di sinistra “dura e pura” ha preso il 20% dei voti, superando ogni aspettativa e sondaggio. In marzo l’inflazione ha segnato il tasso del annuo del 7,4%. Quello di disoccupazione è al 10%, ma quello di disoccupazione giovanile sfiora il 17%, e quello dei giovani francesi di seconda e terza generazione (ossia figli di immigrati) è stimato ad oltre il 35% (non viene rilevato dall’Insee, l’equivalente del nostro Istat a ragione della “politica di assimilazione”). Il malessere sociale è profondo: molti sostengono che negli ultimi cinque anni le differenze sociali sono aumentate anche a ragione di politiche pubbliche (soprattutto quella tributaria) indirizzate a stimolare l’economia riducendo l’imposizione sulle fasce a reddito alto e medio-alto.

Su numerosi punti, i programmi economici dei due candidati all’Eliseo divergono, come si potuto constatare se si è seguito il dibattito televisivo del 20 aprile. Su uno, però, convergono: aumentare la spesa pubblica.

Ciò dovrebbe preoccupare gli altri Paesi e le istituzione europee. In Francia la spesa delle pubbliche amministrazioni è al 56,4% del Pil, rispetto ad esempio al 55,9% della Finlandia ed al 46,2% della Danimarca. La spesa pubblica di Finlandia e Danimarca è diretta, in gran misura, a “stati sociali” noti per la loro efficienza. Il welfare francese (particolaristico- clientelare) fa acqua da tutte le parti.

Sono sposato con una francese da quasi 55 anni e, quindi, lo conosco abbastanza bene anche per ragioni familiari. Il sistema previdenziale è come era quello italiano quaranta anni fa. La sua riforma era uno dei punti centrali del programma di Macron di cinque anni fa: si sono opposti “i gilets gialli” e non se ne è fatto nulla. È stata praticamente depennata del programma del secondo mandato; figuriamoci se ne parla la sua avversaria. Ancora oggi, chi ha fatto lavori stancanti può andare in pensione a 60 anni. Chi ha lavorato nell’esercito, la polizia, nelle carceri o come vigile del fuoco può ritirarsi a 57 anni, in alcuni casi anche a 52. Ho congiunti che sono andati in quiescenza a 55 ed hanno vissuto sino a 92 anni. Altri più giovani sono riusciti a mettersi in pensione a 59 anni dopo meno di 25 di contributi versati. Per la sanità, la cui gestione è in forte deficit, si pensa di prendere spunto dal Sistema sanitario nazionale italiano. Inoltre, si promettono “incentivi” a destra ed a manca ad industria e servizi ed una difesa strenua della politica agricola europea di cui la Francia è il maggior beneficiario.

Come finanziare l’aumento della spesa? Non certo aumentando la pressione fiscale: in Francia il gettito è pari al 48,4% del Pil (rispetto al 47, 2% della Finlandia, al 46,2% della Danimarca ed al 42%in Italia). Uno dei due canditati si impegna a ridurre tasse ed imposte.

Quindi, lo si farà (ove si vogliano attuare i programmi) a debito che negli ultimi anni è passato dal 97% al 116,4% del Pil. Ciò spiega perché da Parigi si propone di parcheggiare a lungo parte del debito presso un’agenzia europea da creare appositamente o presso la Banca centrale europea. Sino ad ora, unicamente qualche economista italiano ha reagito positivamente a questa idea.

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