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La trasformazione della globalizzazione, tra prove di forza e nuove priorità

Di Rosario Cerra e Francesco Crespi

Un filo rosso lega le tre crisi mondiali, finanziaria del 2008, pandemica nel 2020, bellica del 2022: la globalizzazione. Fenomeno che ha accresciuto enormemente il grado di interdipendenza sistemica, ma ha anche innescato squilibri per cui oggi ci viene presentato il conto. L’analisi di Rosario Cerra, fondatore e presidente, e Francesco Crespi, direttore ricerche (Centro Economia Digitale)

Stiamo scoprendo, a nostre spese, di vivere nell’epoca dell’iper-compressione. Grandi cambiamenti, tecnologici, economico-finanziari e geopolitici si susseguono e interagiscono in tempi rapidissimi sconvolgendo gli assetti globali.

Un filo rosso lega in un qualche modo le tre crisi, finanziaria del 2008, pandemica nel 2020, bellica del 2022: la globalizzazione. Fenomeno che ha accresciuto enormemente il grado di interdipendenza sistemica dei vari Paesi, favorito attraverso gli scambi e la specializzazione produttiva la crescita dell’economia mondiale, ma ha anche innescato l’emergere di squilibri economici, finanziari, sociali, ambientali e geopolitici per cui oggi, con sorpresa di molti ma non di tutti, ci viene presentato il conto.

È significativo notare come l’attuale fase di crisi metta in forte evidenza due importanti dinamiche della globalizzazione. La prima è riferita all’inflazione, un fenomeno che nei Paesi avanzati, e soprattutto in Europa, non
destava preoccupazione da qualche decennio ma che torna prepotentemente alla ribalta. È stata la globalizzazione, insieme alla diffusione delle ICT, a garantire negli ultimi decenni la stabilità dei prezzi in un contesto di elevata crescita mondiale, ed è la stessa globalizzazione e la cresciuta interdipendenza delle economie a generare le tensioni strutturali sui prezzi che oggi osserviamo.

La seconda consiste nell’accresciuta capacità delle sanzioni economiche di surrogare l’azione militare come strumento di pressione verso stati sovrani non allineati agli interessi e ai valori occidentali. La globalizzazione, infatti, spiega in larga parte l’ascesa delle sanzioni, poiché maggiore è l’integrazione di un Paese negli scambi internazionali, maggiore è l’impatto delle sanzioni. D’altra parte, il processo di globalizzazione non è stato neutrale e ha anzi cambiato radicalmente i rapporti di forza tra i Paesi.

In questo quadro la Russia ha riaffermato, attraverso l’azione in Ucraina, la rilevanza degli aspetti militari nel definire gli assetti geostrategici e messo a dura prova la fiducia nella capacità di deterrenza delle sanzioni. I cambiamenti nei rapporti di forza prodotti dalla globalizzazione possono, infatti, contribuire a ridurre la credibilità della minaccia delle sanzioni se le dipendenze strategiche ed economiche dei paesi che le dovrebbero imporre sono particolarmente rilevanti a causa dei costi di ritorno. Il problema del blocco delle importazioni di gas dalla Russia ne è un chiaro esempio. È, inoltre, la condizione in cui si ritrova pienamente oggi l’Occidente, e in particolare l’Europa, nei confronti della Cina.

Basti pensare che l’esposizione della prima economia europea, quella tedesca, rispetto alla Cina è straordinariamente più ampia di quella verso la Russia. A fronte di circa sessanta miliardi di euro scambiati tra la Germania e la Russia nel 2021, tra cui 20 miliardi di euro di importazioni di gas e petrolio, c’è un volume commerciale di 245 miliardi di euro con la Cina nel 2021. Senza parlare delle dipendenze strategiche dei Paesi Ue da prodotti e tecnologie cinesi, su cui solo ora si cerca di intervenire attraverso azioni volte al miglioramento della sovranità tecnologica e digitale dell’Unione.

Di fronte agli attuali accadimenti, sarà bene prepararsi a un cambio di prassi che probabilmente, come osservato da molti commentatori, non comporterà la fine della globalizzazione ma una radicale modifica della sua architettura, in cui gruppi fortemente integrati di Paesi che condividono uno stesso sistema di valori, competono tra loro per l’egemonia economica, politica e culturale.

La concorrenza “sistemica” che la Cina pone all’Occidente attraverso il suo regime ibrido tra economia di mercato ed economia pianificata, andrà di conseguenza affrontata con la massima attenzione.

In questo momento la Cina appare non solo più abile nell’utilizzare le politiche pubbliche per imprimere nei fatti una direzione al processo di sviluppo tecnologico e produttivo del Paese, ma sembra anche più capace di valorizzare le dinamiche di mercato.

È un aspetto poco sottolineato, ma la straordinaria competizione di mercato esistente tra le imprese cinesi favorisce la rapida selezione delle migliori soluzioni per lo sviluppo e il successo commerciale di nuovi prodotti e servizi, in grado di sfruttare il potenziale economico delle nuove tecnologie, a partire da quelle collegate all’intelligenza artificiale.

In altre parole, l’economia cinese si dimostra in grado di sfruttare al meglio anche i meccanismi propri che hanno caratterizzato il successo dei sistemi occidentali.

Per l’occidente è quindi fondamentale accettare, in fretta, che la realtà non fa sconti, e che gli unici antidoti sono il pragmatismo e la programmazione.

In particolare, a livello europeo, è importante aumentare l’impegno per rafforzare la resilienza della nostra economia ampliando le sue capacità tecnologiche e produttive specie negli ambiti più strategici, diversificando i mercati e, soprattutto, sviluppando concretamente prodotti e servizi migliori degli altri.

Un risultato che potrà essere ottenuto facendo leva sui due strumenti prima indicati a proposito della Cina: valorizzazione delle dinamiche di mercato e capacità di esecuzione delle politiche. In particolare, la complessità di gestione di politiche trasformative dei nostri sistemi produttivi va prima compresa e poi affrontata, ma occorre farlo in fretta perché la storia ha già bussato alla nostra porta.

Dalle dure lezioni di oggi ne usciremo migliori? O dovremo accontentarci del solito “ne usciremo!”?

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