“La fine della storia” annunciata poco più di quaranta anni fa da Francis Fukuyama non solo non si è verificata, ma siamo alle prese con una nuova “storia” o meglio con tante “storie” più complesse, ed anche più sanguinose, di quelle che caratterizzarono il confronto tra liberal-democrazia e sistemi illiberali ai tempi della Guerra fredda
Da qualche giorno, forse anche sollecitato da un intervento su questa testata del 9 aprile, c’è un dibattito sulla stampa e sul web in merito alla spazio della “ridotta” delle liberal-democrazia sulla scena mondiale. In breve, “La fine della storia” annunciata poco più di quaranta anni fa da Francis Fukuyama non solo non si è verificata ma siamo alle prese con una nuova “storia” o meglio con tante “storie” più complesse, ed anche più sanguinose, di quelle che caratterizzarono il confronto tra liberal-democrazia e sistemi illiberali ai tempi della Guerra fredda.
Fukuyama vedeva l’integrazione internazionale, economica ma non solo, come il veicolo per portare al resto del mondo la liberal-democrazia. E se, invece, è stata proprio l’integrazione economica internazionale a favorire sistemi contrari a quelli che possiamo chiamare i valori occidentali e a fomentare non solo avversione contro le liberal-democrazia e a stimolare nazionalismi e populismi?
Nella mia vita professionale ho lavorato per quattro organizzazioni internazionali in una sessantina di Paesi in via di sviluppo. Spesso i leader ambivano mandare i propri figli a studiare nella migliori università americane, britanniche o francesi, non certo alla Peoples Friendship University Patrice Lumumba di Mosca, purché una volta rientrati in patria, restassero ancorati ai valori tradizionali, quasi sempre molto differenti, e divergenti, da quelli occidentali.
La globalizzazione ha aumentato questa tendenza perché è parsa voler implicare non solo maggiore apertura ai commerci e alla finanza ma anche diffusione, ove non imposizione, dei valori dell’Occidente o quanto meno una loro supremazia su quelli tradizionali.
Ciò ha innescato una reazione di rigetto. Un esempio: due economisti Fernando Ferreira e Joel Waldfogel hanno studiato il progresso o meno della musica tradizionale dal 1960 al 2007 in 22 Paesi e concluso che non solo le popolazioni hanno un forte attaccamento alle musiche dei loro Paesi ma che tale attaccamento si è rafforzato proprio dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ossia da quando gli strumenti di diffusione elettronica (dalla radio al cd) rendevano più accessibile la musica occidentale in tutto il mondo. La maggiore accessibilità è stata avvertita come un’intrusione volta se non a soppiantare quanto meno a ridurre gli spazi della musica tradizionale.
Joseph Henrich dell’Università di Harvard ha pubblicato due anni fa un libro che merita di essere tradotto e diffuso anche in Italia. Il titolo è The weirdest People in the World. The weirdest (ossia i più strani) saremmo noi “altamente individualisti, ossessionati del nostro successo, non conformisti ed analitici che ci concentriamo su noi stessi, sulle nostre aspirazioni e sui nostri risultati, più che sulle relazioni con gli altri e le regole sociali”. Nel resto del mondo, pur ascoltando cantautrici come Billie Eilish, la grande maggioranza trova contrarie alle norme di base del vivere occidentali, ove non repellenti alcuni valori o diritti occidentali. Esempio, la difesa dei Lgbtq; nel mondo mussulmano (2 miliardi di persone) sono esplicitamente vietati dal Corano sono considerati repellenti in gran parte dell’Africa e dell’Asia anche in Paesi non di religione mussulmana. Cercare di portare, più o meno esplicitamente, tramite la globalizzazione tale difesa nel resto del mondo non può non suscitare reazioni fortemente avverse a tutto ciò che ha il profumo di valore occidentale.
I valori occidentali vengono spesso confusi con valori americani. Ancora peggio perché vengono percepiti come il tentativo di esportare il way of life del Paese che è stato per settanta anni l’egemone del mondo occidentale. Oppure con valori eurocratici, ossia espressi in qualche modo dalla tecnocrazia che lavora per l’Unione europea: la controreazione è il sovranismo nelle sue varie forme e guise.
Infine, la globalizzazione ha, senza dubbio, favorito i più intraprendenti, i più innovativi, i più preparati. Anche se le statistiche degli ultimi lavori di Thomas Piketty vanno preso con le molle, le diseguaglianze sono aumentate. Da qui al «populismo» nelle sue varie tinte il passo è breve.