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L’Italia e l’Europa non possono abbandonare Tripoli

La Libia sta vivendo una fase critica, prodotta da uno stallo istituzionale che va avanti da settimane. L’Italia e l’Europa non possono abbandonare Tripoli, perché una Libia prospera è un vantaggio per sicurezza, energia e immigrazione

Non possiamo permetterci di dimenticare la Libia. Non possiamo farlo come Europa e tanto meno come Italia. Non possiamo farlo sebbene siamo concentrati sulla guerra voluta da Vladimir Putin in Ucraina; ma anzi, anche per gli effetti che questa potrebbe avere su altri dossier, dobbiamo pensare subito alla Libia. Non possiamo dimenticarcene adesso che Tripoli è di nuovo a un punto critico.

Nei giorni scorsi sono addirittura tornati gli scontri armati nella capitale libica, sono state scaramucce, seppur tragiche (visto che due persone sono rimaste uccise), ma soprattutto sono state un campanello di allarme, perché fanno immediatamente tornare in mente qual è il rischio. Lo stallo istituzionale attuale potrebbe finire direttamente in guerra.

Possibilità ancora distante, è vero, ma solo per il momento. Molto dipenderà da come evolveranno le cose: e nel corso dei prossimi giorni (forse anche meno di una settimana) qualcosa potrebbe sbloccarsi.

Ci sono delle trattative febbrili sia in Libia, che a livello internazionale, per convincere il primo ministro uscente Abelhamid Dabaiba ad accettare di lasciare il potere, consentendo al nuovo premier incaricato dal Parlamento, Fathi Bashaga, di entrare a Tripoli, al governo, senza la forza.
C’è un consenso sempre più largo su Bashaga, frutto anche di una crisi economica che inizia a farsi sentire perché la Banca Centrale ha chiuso i fondi a Dabaiba, visto che non ha più la fiducia politica. Questo ha creato uno stallo anche nel sistema dei pagamenti. Condizione che rende la condizione davvero non sostenibile per i libici.

L’Unione europea, che ha dimostrato una straordinaria compattezza ed efficacia nel rispondere con fermezza agli orrori russi contro Kiev, avrebbe gli strumenti per poter gettare parte del suo peso diplomatico e politico non solo per accompagnare una risoluzione tranquilla dello stallo, ma per assistere le fasi successive. Pena la ri-esplosione di un fronte di instabilità in mezzo al Mediterraneo.

C’è certamente il dossier migratorio che potrebbe interessare Bruxelles, perché dal caos aumenta la forza con cui i rubinetti libici mandano migranti verso l’Europa. C’è poi la questione energetica, perché la Libia resta un output petrolifero che in caso di scontri e destabilizzazioni si potrebbe perdere, come già successo, aggiungendo un’ulteriore problematica alla questione dei prezzi e forniture che l’Ue sta affrontando. C’è una ragione securitaria generale, che riguarda anche la riapertura di spazi per il terrorismo che istituzioni ordinate potrebbero invece combattere. C’è un fattore strategico: se non lo farà l’Europa, il rischio è che nel mettere ordine in Libia si impegnino attori diversi, competitor non sempre finalizzati al nostro genere di interesse.

Da qui, la necessità è quella di appoggiare l’impegno che forze moderate stanno compiendo, provando, attraverso forme di accordo tra Est e Ovest del Paese, costruire una struttura come quella che ha portato alla nomina di Bashaga. Forze come lo stesso Bashaga, Ahmed Maiteeg, Hafez Gaddour (che per il nuovo governo ricoprirà l’incarico agli Esteri, e dunque sarà l’interlocutore per l’Italia), che stanno resistendo alle tensioni, e che stanno cercando di stabilizzare il Paese attraverso le leve della politica. Una Libia in pace e prospera è un guadagno diretto per l’Europa.

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