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Di cosa parliamo (veramente) quando invochiamo la No Fly Zone

L’attivazione di una zona di interdizione degli spazi aerei non risolverebbe i problemi di chi subisce quotidiani massacri e  sarebbe una misura di dimensioni spropositate a fronte di vantaggi inconsistenti. La spiegazione del generale Leonardo Tricarico, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare

Sono settimane ormai che una “No Fly Zone” viene invocata da chi la ritiene un riparo sicuro dalle incursioni aeree russe o da chi invece la considera l’innesco certo della terza guerra mondiale.

La sensazione è che né gli uni né gli altri sappiano esattamente di cosa parlano, e che quindi sfugga loro che l’attivazione di una zona di interdizione degli spazi aerei  – di questo si tratta – da un lato non risolverebbe i problemi di chi subisce quotidiani massacri e dall’altro sarebbe una misura di dimensioni spropositate a fronte appunto di vantaggi inconsistenti. Vediamo perché.

Per attuare il blocco degli spazi aerei sono necessari nell’ordine i seguenti interventi. Posizionamento, in corrispondenza dei confini che si intende proteggere dalle penetrazioni aeree ostili  – nel nostro caso quelli di Bielorussia e Russia – un adeguato numero di velivoli intercettori orbitanti in continuazione a mo’ di falchi pronti a piombare su chiunque tenti di violare i confini. Il numero di orbite CAP (Combat Air Patrol) viene calcolato sulla base dell’estensione dei confini e del volume presunto di penetrazioni contemporanee. Ad occhio e croce in Ucraina servirebbero non meno di tre o quattro CAP per avere un effetto ancorché minimo.

Poi servono gli occhi del sistema, nel nostro caso i radar volanti, quelli capaci di scoprire il più precocemente possibile le minacce in arrivo, anche essi posizionati in orbita più ampia a scrutare gli spazi aerei nelle due dimensioni di altezza e distanza, fino a bassissima quota.

Tutti questi velivoli e gli altri impegnati in zona di operazioni hanno poi bisogno di carburante, quindi servono i velivoli cisterna, anche essi in permanenza in volo a rifornire chi mano a mano ne ha necessità.

Poi servono i sistemi complessi da adibire a guerra elettronica, ricognizione, sorveglianza, funzioni di comando e controllo ed ogni altra utilità tattica.

In questa come in altre operazioni non possono poi mancare velivoli ed elicotteri per operazioni Combat SAR (Search and Rescue), operazioni molto complesse in favore di equipaggi di volo abbattuti o precipitati in aree potenzialmente ostili.

Da ultimo i velivoli SEAD (Suppression Enemy Air Defence), sistemi appositamente attrezzati per rilevare e colpire con missili anti radiazioni le postazioni radar ancora attive ed asservite a batterie missilistiche.

Una macchina imponente quindi, un orologio complesso in cui tutto deve girare alla perfezione, tutti i giorni, per 24 ore, a tempo indeterminato. Con un impegno complessivo dell’ordine di alcune centinaia di velivoli dislocati nei paesi Nato limitrofi.

E non finisce qui. Perché non è immaginabile proibire gli spazi aerei anche al traffico “amico”, velivoli di Stato, commerciali, velivoli ed elicotteri militari amici. Bisogna quindi discriminare il traffico amico da quello ostile, ridisegnare gli spazi aerei, emanare a tutti i possibili utenti un bollettino, i NOTAM (Notice to AirMen), in cui vengano precisate le nuove regole per le specifiche aree di volo.

Ad ogni singolo volo viene rilasciato un lasciapassare elettronico, un codice che egli deve esibire per essere riconosciuto come amico dai radar e dagli enti di controllo, pena venire abbattuto.

È questa una attività particolarmente impegnativa abbisognevole di coordinamento rapido e stretto tra gli operatori, un’attività peraltro in cui noi italiani siamo particolarmente abili grazie ad una integrazione ormai perfetta con gli enti civili di controllo del traffico e grazie anche all’esperienza maturata sul campo in più circostanze. Nella guerra dei Balcani, ad esempio, non fu facile mantenere inalterato, seppur con piccole deviazioni, il flusso di traffico civile e continuare nelle operazioni belliche giunte, nei giorni di picco, a 900 missioni giornaliere.

Queste in buona sostanza le predisposizioni per attivare una No Fly Zone. Un’impegno ciclopico come si vede, per costruire e far girare in maniera efficiente e sicura una macchina multinazionale complessa ed estremamente onerosa. Che avrebbe certamente un effetto “equilibrante” tra i due contendenti e deterrente per la air mobility contenendo rifornimenti e spostamenti di truppe ed andando quindi a rallentare ulteriormente l’attività dell’ invasore.

Vantaggi però minimi, quasi nulli sopratutto se, comprensibilmente, i russi dovessero mangiare la foglia e girare alla larga. E con i carri armati, gli obici, i lanciarazzi ed il resto dell’artiglieria che continuerebbe imperterrita a far massacri. Forse, se anche una No Fly Zone, pur non facendo scoppiare come tutti ripetono la terza guerra mondiale, dovesse comunque provocare un’estensione del conflitto, allora varrebbe la pena pensare ad interventi di altro tipo infinitamente meno costosi ma più efficaci, forse risolutivi, lasciando la parola ai tecnici che di queste cose se ne intendono.

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