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Rischi e sfide della guerra in Ucraina. L’analisi dell’amb. Melani

Di Maurizio Melani

Il disegno di Putin era innanzi tutto di impadronirsi dell’Ucraina. Non lo ha nascosto nei suoi discorsi che lanciavano la guerra e con i comportamenti militari sul terreno, ma non ci è finora riuscito a causa della resistenza degli ucraini con il sostegno della grande maggioranza della popolazione. L’analisi di Maurizio Melani, ambasciatore d’Italia in Iraq

La guerra in Ucraina pone una serie di sfide e di interrogativi. Alcuni evidenti, quelli su cui da settimane si sta dibattendo, altri meno visibili o comunque non sottoposti all’attenzione degli analisti e dei mezzi di comunicazione, ma altrettanto rilevanti per la nostra sicurezza e più in generale per il futuro dell’Italia e dell’Europa.

Il disegno di Putin era innanzi tutto di impadronirsi dell’Ucraina. Non lo ha nascosto nei suoi discorsi che lanciavano la guerra e con i comportamenti militari sul terreno. Non ci è finora riuscito a causa della resistenza degli ucraini con il sostegno della grande maggioranza della popolazione, inclusi i russofoni che dovevano essere la sua quinta colonna, sostenuti in armamenti dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali, nonché dall’imposizione alla Russia di sanzioni sempre più dure. Si tratta ora di vedere come si articolerà e che effetti avrà l’intensificazione delle azioni belliche russe dopo l’affondamento dell’incrociatore Moskva che sembra aver innescato una escalation sempre più pericolosa.

In realtà, stando alle sue parole, per Putin non era sufficiente il controllo dell’Ucraina anche se poi di fronte agli insuccessi è sembrato aver circoscritto l’obbiettivo al controllo del Donbass. In quegli stessi interventi pubblici e nelle richieste sottoposte agli occidentali poco prima dell’aggressione egli rivelava la volontà di recuperare, contrariamente alla volontà dei popoli interessati, quel che la Russia aveva perso con la fine della guerra fredda. Era d’altra parte quanto aveva sostenuto nel tante volte ricordato intervento alla conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2008.

Ed era quanto emergeva nel dialogo Nato-Russia e Ue-Russia avviato dopo l’incontro di Pratica di Mare: il riconoscimento del suo controllo dell’estero vicino, come la Russia definiva i paesi nati dalla dissoluzione dell’Urss ed oltre, ritenendo che per la sua sicurezza fosse necessaria l’acquisizione di una profondità strategica grazie a quei territori. Dopo la disastrosa conclusione della vicenda afghana, Putin ha sottovalutato la capacità di reazione occidentale, sia americana che europea, oltre a quella di resistenza degli ucraini ed ha ritenuto che fosse venuto il momento di agire per il perseguimento di quell’obbiettivo aggredendo l’Ucraina e contando anche sulla dipendenza europea dal gas russo che nella sua visione avrebbe diviso e paralizzato l’azione di americani ed europei.

Innumerevoli sono stati i tentativi di indurre il leader del Cremlino a trovare una soluzione. Da parte di Macron, di Scholz, di Draghi, e da ultimo dell’austriaco Nehammer non trovando dal lato russo segni di disponibilità mentre gli occidentali mostravano una ritrovata unità. Un tavolo di trattativa promosso dalla Turchia non ha portato a risultati concreti se non quello, comunque utile, di esplicitare alcune posizioni. L’Ucraina ha in questo ambito rinunciato alla propria ambizione di essere membro della Nato ma al temo stesso ha chiesto formalmente di entrare nell’Unione Europea.

E questo ci pone una sfida importante le cui implicazioni non sembrano sufficientemente approfondite al livello della comunicazione. Quale segno di solidarietà nei confronti dell’aggredito si è subito indicata da parte delle istituzioni europee e degli Stati membri la disponibilità ad avviare il percorso dell’accettazione della candidatura e poi del lungo processo che sulla base dei criteri di Copenhaghen dovrebbe portare, una volta superati tutti gli esami, all’adesione. Si ricorderà che per i paesi dell’Europa Centrale ed Orientale questo processo è durato oltre un decennio.

Si è detto da più parti che date le circostanze lo si deve accelerare. La prospettiva europea è cruciale per l’Ucraina. Ma occorre considerare anche le sue conseguenze per l’Unione Europea che potrà gestire le sue sorti e quelle dei suoi Stati membri soltanto se procederà verso una integrazione sempre più stretta tra chi lo vuole. Essenziale sarà l’estensione del processo decisionale a maggioranza qualificata eliminando quello all’unanimità e andando quindi verso una una sempre maggiore condivisione e limitazione di sovranità. Ed è disposta l’Ucraina ad accettarlo?

Qualora non lo fosse, come non lo sono finora i paesi dell’Europa Centrale ed Orientale membri dell’Ue, occorrerà finalmente coniugare gli ulteriori allargamenti ad una integrazione differenziata a più cerchi, con quello centrale formato da paesi disponibili ad integrarsi sempre di più per dare all’Europa la capacità necessaria a salvaguardare i suoi interessi comuni in un mondo multipolare. Essendo necessaria l’unanimità per passare al metodo della maggioranza nei settori cruciali nei quali questo non è ancora applicabile occorrerà ricorrere a nuovi trattati aggiuntivi a quelli esistenti. Chi sta o vuole stare nel cerchio centrale deve accettare ambiti sempre più ampi di condivisione della sovranità.

Questo faciliterebbe anche l’allargamento con adesioni ai trattati in vigore e quindi quelle dell’Ucraina e dei candidati dei Balcani ove si gioca una partita a quattro fra Ue, Russia, Cina e mondo islamico nelle sue varie componenti. Nella manifestata unità tra americani ed europei e tra questi ultimi non è tuttavia mancata una esplicitazione di approcci e interessi tra loro diversi, pur nell’ambito di quello comune di contrastare l’aggressione e giungere, almeno per una parte di noi europei, ad una pace basata sulla neutralità dell’Ucraina garantita internazionalmente e sulla autodeterminazione dei territori che la Russia ora occupa, anch’essa garantita e gestita internazionalmente cui dovrà seguire un assetto di sicurezza nel quale alla Russia sia riconosciuto il ruolo che le spetta.

Per giungere a questo saranno tuttavia necessarie ulteriori forti pressioni sulla Russia tra le quali l’arresto graduale dell’importazione di idrocarburi russi man mano che ci attrezzeremo a sostituirli con la diversificazione geografica dei flussi, la realizzazione delle strutture necessarie (di rigassificazione, di interconnessione e di stoccaggio) ed un rapido forte sforzo per la transizione energetica e il superamento degli ostacoli che impediscono il necessario sviluppo di fonti rinnovabili, assieme a quello per un sempre maggior efficientamento e risparmio nei consumi di energia.

I costi per l’Europa ed in particolare per l’Italia e la Germania derivanti dall’abbandono del gas russo non si pongono per gli Stati Uniti e il Canada, esportatori di Lng i cui prezzi sono tuttavia maggiori di quelli del gas che vogliamo sostituire. In questo contesto una concreta solidarietà da parte dei nostri alleati nord-americani sarebbe necessaria per rendere più efficace e solidale il nostro impegno comune a fermare il revanscismo russo e le aggressioni attraverso cui questo si manifesta.

Vi è infine un altro aspetto che non dovremmo trascurare, considerato che l’azione rivolta a respingere l’aggressore e i suoi disegni destabilizzanti passa dall’indebolimento di Putin e del suo regime. Una implosione della governance in Russia che vada oltre mutamenti al vertice che possano dar luogo ad auspicati mutamenti politiche non appare al momento probabile e neppure auspicabile. Essa non è tuttavia impossibile. Quali sarebbero le conseguenze di un collasso delle istituzioni in un paese con migliaia di testate nucleari, grandi quantità di materiali radioattivi e conoscenze nel settore? In quali mani potrebbero finire?

Al tempo di Eltsin era stato avviato, sia pure con grandi difficoltà considerati i problemi di gestione che conosceva allora la Russia, un programma di controllo e decommissioning che fu poi fermato da Putin. Sarà necessario attrezzarci pensando a quel che potrebbe accadere per non trovarci impreparati come lo fummo con la Jugoslavia nella prima metà degli anni 90 ma con rischi di destabilizzazione molto maggiori. Cosi come dovremo operativamente attrezzarci di fronti ai rischi finora rimossi nella comunicazione pubblica dell’uso di armi di distruzione di massa o di attacchi voluti o accidentali a centrali nucleari.

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