Non sta certo a noi prendere le difese delle autorità monetarie americane, i riflessi delle cui politiche si avvertono in tutto il mondo, soprattutto nell’eurozona. Occorre, tuttavia, fare alcune precisazioni sulla strategia della Fed, a cui è necessario dare credito e tempo
Il fascicolo del 23-29 aprile 2022 di The Rconomist è in gran misura dedicato alla politica monetaria americana e ai suoi effetti sul resto del mondo: la copertina afferma senza mezzi termini che “la Fed (ossia il Federal Reserve Board) ha sbagliato tutto”, l’editoriale è sullo stesso tema (e con toni durissimi), un rapporto speciale è diretto alle banche centrali, non solo la Fed, che cercano di fare troppe cose (da occuparsi dei temi ambientali a studiare come emettere cripto-valute) perdendo di vista il loro scopo essenziale (assicurare una crescita senza inflazione, o con un’inflazione moderata).
Non sta certo a noi prendere le difese delle autorità monetarie americane, i riflessi delle cui politiche si avvertono in tutto il mondo, soprattutto nell’eurozona. Occorre, tuttavia, fare alcune precisazioni in linea con quanto sostenuto da un paio di mesi su questa testata.
In primo luogo, un possibile “surriscaldamento” dell’economia americana (e non solo) era non solo prevedibile, ma anche previsto, a ragione delle politiche di bilancio messe in atto per contrastare la caduta della domanda (e in buona ragione anche dell’offerta) causata dalla pandemia sin dal marzo 2020. In quella fase, la politica monetaria (che usciva dalla crisi finanziaria del 2008-2009 e dai suoi strascichi) non poteva fare altro che assecondare la politica di bilancio. Negli Usa la politica monetaria, allora guidata dall’attuale segretaria al Tesoro Janet Yellen, ha anticipato (credo saggiamente) le “misure non convenzionali” (Quantitative Easing), successivamente riprese in Europa con il “whatever it takes” di Mario Draghi, allora a capo della Banca centrale europea.
In secondo luogo, la vampata d’inflazione (negli Usa in marzo. l’indice dei prezzi al consumo ha segnato un tasso annuo dell’8,5%) è solo in parte imputabile a stimoli fiscali troppo forti, ossia ad eccesso di spesa pubblica finanziata in disavanzo. È in gran misura causata dall’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina e dal fatto che gli Stati Uniti (ritrovando il senso di leadership di un passato non troppo remoto) sono, a differenza dell’Unione europea (Ue), il Paese che più sta facendo (con aiuti diretti a Kiev ed anche con il supporto a Paesi dell’Ue che ora pagano lo scotto di politiche energetiche poco sensata) per finanziare il sostegno al Paese aggredito. Ciò ha innescato una fiammata inflazionistica, documentata più che dell’aumento dell’indice del costo della vita (8,5% in marzo) dalla “core inflation” (ossia dall’indice depurato dai prezzi dei beni alimentari and agricoli) che ha toccato il tasso annuo del 6,5% (nell’eurozona è al 3%).
In terzo luogo, sotto un profilo importante le politiche monetarie e fiscali sono state un grande successo (che, però, pesa sull’inflazione: il tasso di disoccupazione negli Usa è al 3,6%, quello che si aveva in Italia negli anni migliori, 1962-64, del “miracolo economico”), la metà di quello dell’Ue. Senza dubbio, ciò ha effetti sui salari e sui tenori di vita.
In quarto luogo, non è ancora chiaro se l’inflazione sia entrata nelle aspettative, il vero rischio e pericolo. Ci vorranno un paio di mesi per poterlo giudicare. Per ora il Federal Reserve Board sta cercando di attuare un soft landing (atterraggio morbido), analogo a quelli effettuati nel 1964, nel 1984 e nel 1993, per evitare misure draconiane come quelle adottate alla fine degli anni Settanta che portarono gli Stati Uniti, e gran parte dei Paesi Ocse, in recessione. Diamogli credito per un paio di mesi.