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A Putin la politica monetaria costa di più delle sanzioni

Il presidente russo sta attuando una politica monetaria i cui costi sull’economia della Federazione Russa sono ben maggiori di quelli delle sanzioni imposte dagli Stati “ostili”. Ecco perché secondo Giuseppe Pennisi

Putin – lo sappiamo – non ha mai seguito corsi di studi regolari: è cresciuto come “picchiatore” tra le bande giovanili della periferia di quella che allora si chiamava Leningrado (oggi San Pietroburgo). Caso e fortuna vollero che trovasse un “posticino” nei servizi segreti ed avesse come sede Dresda, dove imparò il tedesco ma lo colse il crollo del muro di Berlino (e dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). Eventi per cui prova rabbia ed è triste ancora. Asceso, poi, ai vertici della Federazione Russa e rimastoci per 22 anni si è curato di avere come collaboratori persone che gli dicessero quello che voleva ascoltare (ad esempio, che “l’operazione militare speciale” avrebbe portato alla caduta di Kiev ed alla sostituzione del Governo di Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj).

Lo fa anche in materia di politica economica e monetaria. Nonostante qualche voce sommessa (anzi molto sommessa) avesse cercato di avvertirlo, sta attuando una politica monetaria i cui costi sull’economia della Federazione Russa sono ben maggiori di quelli delle sanzioni (molte facilmente aggirabili) imposte dagli Stati “ostili”.

Chi ha tentato di spiegarglielo è Tovarish (la compagna) Elvira Nabiullina, una comunista di quelle dure e pure ma che negli ultimi vent’anni (tramite G20 e simili) ha avuto stretti contatti con economisti occidentali ed ha, quindi, appresso l’essenziale di macro-economia ed economia monetaria. Alla Georgij Plechanov, prestigiosa facoltà di studi economici dell’università statale di Mosca, era famosa per saper ripetere a memoria il tomo Economia della rivoluzione, pietra angolare del pensiero di Lenin, e persino Il Capitale di Karl Marx e Frederich Engels. Ecco perché, nel dicembre del 1991, dopo che in una dacia nella foresta di Belavezha, nei pressi di Minsk, i presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina firmarono lo storico accordo per lo scioglimento dell’Unione sovietica, la sconcertata compagna Elvira restituì la tessera del partito, infilandola sotto la porta della sezione universitaria.

Poiché i genitori lavoravano, lei e suo fratello crebbero con la nonna materna, una signora amante della musica classica e delle buone letture, che le trasmise lo sconfinato amore per lo studio. Fin dalle elementari, Elvira era una secchiona pazzesca, sempre la prima di ogni classe della scuola con tutti 10 in pagella. Infatti, si diplomò col massimo dei voti e la medaglia d’oro d’eccellenza sovietica concessa ogni anno a una decina di migliori studenti. Questo le fruttò una borsa di studio per l’Università di Mosca, facoltà di economia di Stato. Non vi è traccia, nemmeno a pagarla a peso d’oro, di un qualche mezzo pettegolezzo sulla vita irreprensibile della ragazza tartara nelle pur tentatrici spire della capitale. Tra un esame e l’altro, sempre superato di slancio, Elvira trovò però il tempo di coltivare un feeling intellettuale con uno dei suoi professori, il famoso economista Jaroslav Kuzminov, che poi si trasformò in amore e quindi in matrimonio. Nel 1988, la coppia ha avuto un figlio, Vassily, analista finanziario presso la scuola superiore di economia, fidanzato con un’esperta di statistiche economiche.

Occorre dire che le sue controparti occidentali la considerano competente e affidabile. All’inizio dell’”operazione militare speciale” in Ucraina diede le dimissioni non in polemica con Putin ma perché temeva che i costi sarebbero stati troppo alti. Putin, con cui ha un forte legame di amicizia, la convinse a restare al suo posto ed attuare una politica a difesa del rublo, che cominciava a barcollare sui mercati internazionali ai primi segni del conflitto.

Manzonianamente, si potrebbe dire “la sventurata rispose”. Aumentò il tasso d’interesse di base dal 9,5% al 20% per indurre i russi ad collocare risparmi nel loro Paese. Impose, poi, restrizioni molto severe sui cambi. E via discorrendo. Ossia una politica mirata unicamente al rafforzamento del rublo (va in questo senso anche il tentativo di fare pagare in rubli i pagamenti dei Paesi “ostili” per le loro importazioni di gas e petrolio dalla Federazione Russa).

Tovarish Elvira Nabiullina tentò di spiegare ad un Putin (sempre molto distratto quando si parla di questioni economiche), il modello Mundell-Fleming (di cui si riassumono gli aspetti principali in calce a questa nota), altrimenti detto il modello del trilemma impossibile. In estrema sintesi, un Paese può voler tre cose dalla propria politica monetaria ma ne può ottenere solamente due: non si possono avere simultaneamente il libero movimento dei capitali, controllo della politica monetaria e cambio fisso. Occorre rinunciare a uno dei tre punti. Si può, ad esempio, fare come la Gran Bretagna che ha mercati dei capitali aperti e una politica monetaria del tutto autonoma, al prezzo però di un tasso di cambio fluttuante. O come fanno gli Stati dell’unione monetaria europea che hanno liberi movimenti dei capitali e stabilità monetaria ma hanno rinunciato ad avere 19 politiche monetarie autonome. Oppure ancora come la Cina che ha un cambio stabile ed una politica monetaria autonoma ma al prezzo di controlli e restrizioni sui cambi.

Putin ha chiesto che si puntasse su un obiettivo solo: un rublo forte, anzi fortissimo. Se nei prossimi mesi – come tutti si aspettano – l’economia della Federazione Russa (come quella mondiale) peggiora, il rublo forte può solo accelerare ed aggravare una recessione, anche se i media della Federazione non lo ammetteranno mai. Come spesso avviene in regimi autoritari.

In Italia, ne abbiamo un esempio da manuale (ma il modello Mundell-Fleming sarebbe stato formulato oltre quaranta anni dopo). Nel 1926 l’attenzione del ministro delle Finanze Giuseppe Volpi (che aveva appena sostituito Alberto de’ Stefani) si concentrò sui problemi di deprezzamento che avevano afflitto la moneta nazionale, deprezzandone il valore di circa il 20% rispetto al periodo antecedente la Grande Guerra. In quel momento il cambio era di 153 lire per una sterlina e l’obiettivo di raggiungere Quota 90, promosso da Mussolini durante il discorso di Pesaro del 18 agosto 1926. Sembrò subito azzardato ma si tentò di perseguirlo, l’esito fu una recessione.

Il Modello

Modello Mundell-Fleming proposto, in modo indipendente, da R.A. Mundell (1961) e J.M. Fleming (1962) per l’analisi macroeconomica di economie aperte agli scambi con l’estero, in regime di cambi fissi o di cambi fluttuanti. Sulla base di questo modello, in particolare, si formula il cosiddetto principio dell’impossibile trinità, o trilemma di M.-F., secondo il quale non è possibile mantenere simultaneamente un regime di cambi fissi, una perfetta mobilità dei capitali e una politica monetaria indipendente. Il modello di M.-F. studia un equilibrio economico di breve periodo, in cui i prezzi sono fissi e il livello del Pil (Y) è determinato dal lato della domanda, ossia dalla somma di consumi (C), investimenti (I), spesa pubblica, un valore aggiunto (G) e, data l’ipotesi di economia aperta, delle esportazioni nette (NX), pari alla differenza tra esportazioni e importazioni. Questa relazione definisce l’equazione di equilibrio della domanda dei beni IS (Investment Saving), Y=C+I+G+NX. I consumi sono funzione del reddito disponibile (al netto delle tasse) e del tasso di interesse reale (al netto delle aspettative di inflazione), gli investimenti dipendono anch’essi dal tasso di interesse reale e la spesa pubblica, un valore aggiunto, è una variabile esogena, determinata dalle scelte di politica fiscale del governo (così come il livello di tassazione); le esportazioni nette, invece, dipendono positivamente dalla domanda estera di esportazioni e negativamente dalla domanda interna di importazioni (a sua volta funzione del reddito) e dal tasso di cambio (che misura il numero di unità di valuta estera acquistabili con un’unità di valuta interna). In particolare, una svalutazione della valuta interna (ossia una riduzione del tasso di cambio) comporta un aumento dei beni esportati, che sono più competitivi perché meno cari all’estero, e una riduzione di quelli importati, che sono invece più costosi, e di conseguenza una crescita delle esportazioni nette; e viceversa nel caso di una rivalutazione del cambio.

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