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Riforme e cortocircuiti. La controstoria economica di Saravalle e Stagnaro

In “Molte riforme per nulla” (Marsilio) si affrontano in modo sistematico i temi dell’inefficienza della Pa, dell’ingiustizia civile, della rigidità del mercato del lavoro, della politica industriale e dell’iniquità fiscale. Fino a oggi con il Next Generation Eu. Un lungo filo d’Arianna per muoversi nel labirinto della società italiana

“Molte riforme per nulla” (Marsilio) è uno di quei libri da tenere a portata di mano. Serve per le consultazioni, quando si cerca un dato relativo alla situazione del Paese, un riferimento legislativo o si tenta di avere contezza della filiera giuridica che ha accompagnato l’evolversi di determinati istituti.

I due autori Alberto Saravalle, giurista, e Carlo Stagnaro, un ingegnere prestato all’economia, hanno realizzato un’opera meritoria, che si caratterizza per la sua sistematicità. I temi analizzati sono molti: le inefficienze della Pubblica amministrazione, l’(in)giustizia civile, l’(a)concorrenza nel mondo delle rendite, il moloc dello statalismo, i dilemmi della rigidità del mercato del lavoro, gli eccessi pensionistici, il nuovo interventismo nell’economia per il tramite della politica industriale, e – last but not least – l’iniquità fiscale. Per concludere (si fa per dire), infine, sul tragico destino di un Paese che finora non è riuscito ad essere “normale”. Il “Pnrr” sarà “l’ultima spiaggia?”.

Da questa sommaria descrizione si può vedere qual è l’interesse del saggio. Un lungo filo d’Arianna che consente di muoversi nel labirinto della società italiana. Servirà quindi a tutti coloro che si occupano di legislazione: troveranno i riferimenti normativi principali e i passaggi che hanno portato alla costruzione di quello che, molte volte, è stato un gigantesco castello di carte. Per lo più poco stabile: visto che le forze politiche dell’alternanza, quelle del terzo millennio, si sono dilettate sommamente nel gioco della reciproca demolizione. Ad ogni giro di boa, la principale aspirazione era quella di abolire ciò che aveva fatto il precedente governo. Servirà agli storici, nella disperata ricerca di attribuire meriti (pochi) e responsabilità (tante). Il che dovrebbe spiegare, come mai, all’improvviso, come Venere che esce dalla spuma del mare, una forza culturalmente inconsistente, come quella dei 5 Stelle, riesce a diventare il primo partito politico italiano.

Il suo taglio principalmente sovrastrutturale serve anche all’economista per contenere la sua smania per i numeri e l’analisi dei processi reali. Potrà così misurare lo scarto crescente che in Italia si è verificato tra la governance politica e l’autonomo sviluppo dei processi effettivi. Fino a determinare veri e propri corti circuiti. Il “divorzio” tra la Banca d’Italia ed il Tesoro, agli inizi degli anni ’80, misura presa in solitudine da Nino Andreatta e che provocò il duro battibecco e poi la crisi di governo con Rino Formica, era giusto in astratto. Ma la scelta dei tempi fu disastrosa. Coincise con il cambiamento della politica monetaria, imposta a tutto l’Occidente da Paul Volcker, divenuto nel frattempo presidente della Fed americana. I tassi d’interesse, in Italia, schizzarono alle stelle, gonfiando la dinamica del debito pubblico. Nel 1992 la spesa per interessi era pari al 12 per cento del Pil ed al 25,3 per cento della spesa pubblica al netto degli interessi.

Come si può desumere da questo episodio e molti altri ancora, non sempre i tentativi di raddrizzare il “legno storto” della società italiana hanno raggiunto il loro scopo. Molte volte si sono risolti nel loro contrario. Perché ciò che è mancato, in tutti questi anni, è stato soprattutto la lucida consapevolezza di un’evoluzione spontanea non solo dell’economia, ma dell’intera società italiana, che i decision maker non sono riusciti ad intercettare. Se non con grande ritardo. E di conseguenza le relative decisioni risultavano, il più delle volte, parziali, limitate se non addirittura contradditorie e controproducenti. Quali le ragioni, al di là del giudizio, sempre scivoloso, sulle qualità delle élite?

Durante il periodo della “guerra fredda”, l’Italia è stato sempre un Paese di frontiera, sempre in bilico tra le due sponde di quella contraddizione storica. Il difficile compito di uomini come De Gasperi o Togliatti – stiamo ovviamente semplificando – fu quello di evitare uno scontro mortale per le sorti del Paese, ma al tempo stesso mantenere le relative truppe, vale a dire i rispettivi militanti, in uno Stato di permanente allerta.

Condizione indispensabile per mantenere la propria leadership, continuamente osservata dalle potenze straniere, pronte ad imporre un eventuale cambiamento in caso di tentennamenti. Mantenere lo status quo fu il compito prevalente della politica, non solo economica, ma di costume, italiana. Una roccaforte, o se si preferisce uno scoglio, contro il quale era destinata ad infrangersi qualsiasi tentativo destinato ad alterare, in qualche modo, quell’equilibrio di fondo.

L’errore, se così si può dire, fu dopo l’89 e la progressiva dissoluzione dell’”impero del male”. Usando un termine filosofico, si può dire, che le “nuove” forze politiche italiane, nate sull’onda della grande crisi del ’92, ipostatizzarono il vecchio clima politico. Continuarono a comportarsi come se il muro di Berlino fosse ancora in piedi. Dal centro destra si inveiva contro i “comunisti”; dal centro sinistra contro gli “unfit” (copyright dell’Economist). Nemici e non avversari che si contendevano il potere. Il che spiega le contraddizioni evidenziate nel saggio: quella continua oscillazione del pendolo delle cosiddette riforme, arma per mantenere il consenso elettorale del proprio elettorato di riferimento, non per guidare la nazione sulla strada della modernizzazione.

Sopra questo confuso balbettio si era elevata, ovviamente, qualche voce più che autorevole. In passato era stato Guido Carli, dalla prestigiosa sede della Banca d’Italia. Nuove “prediche inutili” come quelle di Luigi Einaudi. Sennonché, a seguito dell’unificazione tedesca, che fu, per la storia europea, il fatto più importante prodotto dalla fine dell’Urss, il confronto con i nostri partner divenne più stringente. E di conseguenza le anomalie italiane più vistose. Ed è allora che “il jolly del vincolo esterno”, per riprendere il titoletto di un paragrafo del 1° capitolo del libro, fu destinato a svolgere un ruolo ben più stringente: dalla semplice moral suasion del passato, al driver delle decisioni più indigeste per poter partecipare alla costruzione della stessa Unione europea, così come oggi la conosciamo.

Sarebbe tuttavia sbagliato enfatizzare più di tanto quel vincolo. Non perché non fosse necessario; ma per gli effetti collaterali ch’esso produsse. Il sorgere di una sorta di potere reverenziale verso tutto ciò che proveniva da Bruxelles, dimenticando che l’Italia era un partner importante di quella costruzione. Uno stakeholder che, come tutti gli azionisti, doveva avere voce in capitolo nella gestione degli affari comuni. Cosa che invece non si è quasi mai verificato, al punto che il “whatever it takes” di Mario Draghi, come presidente della Bce, diventa una leggenda. Non solo perché destinato a salvare l’euro, ma come uno dei pochi atti di assoluta autonomia da parte di un italiano, chiamato a svolgere un ruolo così importante. Per inciso, va solo ricordato che, qualche mese prima, Jean-Claude Trichet aveva aumentato i tassi di interesse di riferimento della Bce, contribuendo non certo a contrastare la crisi dei debiti sovrani, che già si intravedeva all’orizzonte.

Vale forse la pena soffermarsi un attimo sui limiti dell’azione della stessa Commissione europea, ricordando un episodio che sarà poi la madre di quella crisi. Quando la Grecia entrò nell’euro, non aveva solo i conti debitamente “taroccati”, come denuncerà più tardi George Papandreou. I suoi squilibri macroeconomici erano più che evidenti. Il deficit delle partite correnti della sua bilancia dei pagamenti era di natura strutturale e pari al 10 per cento del Pil.

Ben al di sopra dei vincoli decisi dall’Istituto monetario europeo, il regista della nascita dell’euro, per tutti gli altri Paesi partecipanti all’evento. Quindi attenti a non mitizzare l’Ue. Il problema italiano non è il dilemma angoscioso tra il “fare i compiti a casa” o affermare “sovranismo”. È avere un atteggiamento, al tempo stesso, critico e costruttivo. Stare, come si deve stare (il che al momento non è così) in un’istituzione complessa, per contribuire allo sviluppo di una linea unitaria, che sia tuttavia rispettosa delle singolarità dei singoli Paesi.

Il discorso, quindi, può tornare a bomba. Qual è la reale situazione italiana, dal punto di vista economico? O meglio, quale era, visto che l’ignobile guerra di Putin è destinata ad essere un tornante della storia futura. Nel libro c’è un aspetto che può rappresentare il punto di caduta di quanto siamo andati argomentando. Il tema è quello della politica industriale, che gli autori valorizzano pur non nascondendo il suo contradditorio svilupparsi. Non si pronunciano, tuttavia, sui relativi “effetti” (pag.175). Non è nostra intenzione farlo. Ma c’è un dato più complessivo che va ricordato. Il successo della politica industriale italiana, a partire dal 2013, è stato indubbio. Non certo attribuibile solo alle politiche di incentivazione, ma un complesso di circostanze: tra le quali la deflazione, che ha portato ad una forte compressione della domanda interna, liberando risorse da destinare ai settori di esportazione.

Alcuni dati soltanto: dalla nascita dell’euro le partite correnti della bilancia dei pagamenti erano state sempre in deficit, fino a raggiungere nel 2010 il 3,3 per cento del Pil. Una delle cause sottovalutate della crisi del 2011. A seguito delle politiche di austerity del Governo Monti, la resilienza dell’economia italiana fu straordinaria. Già nel 2012 quello squilibrio era stato riassorbito, creando un progressivo attivo: in media 50 miliardi all’anno, per un valore intorno al 3 per cento del Pil. Di conseguenza il debito estero (Niip-Net international investment position) che nel 2013 era pari al 23,4 per cento del Pil, allo stato attuale, non solo è stato completamente riassorbito, ma si è trasformato in un credito a favore dell’estero: 105,8 miliardi alla fine dello scorso settembre, il 6,1 per cento del Pil. Importi ch’erano destinati a crescere rapidamente se non fosse intervenuta la guerra. Ed eguagliare, già nel 2022, l’importo delle risorse ottenute con la Next Generation Eu. Un motivo d’ottimismo, se non fosse per quello che è accaduto dopo la stesura del libro. Come si diceva in precedenza l’ignobile guerra di Putin cambierà gli equilibri geopolitici del mondo. Sarà un nuovo capitolo di cui è impossibile cominciare ad intravedere la trama.

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