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Perché le sanzioni non fanno tremare Putin

Le sanzioni che davvero possono mettere in difficoltà la Federazione Russa sono quelle che mordono il sistema bancario e finanziario internazionale. E morderebbero ancora di più se l’insieme dei Paesi occidentali applicassero con coerenza le medesime misure nei confronti dell’importazione di oli minerali (soprattutto gas) dalla Russia. Il commento di Giuseppe Pennisi

L’Occidente sta cercando di varare una nuova batteria di sanzioni contro la Federazione Russa, che ha annunciato pretese su parte della Moldavia, in particolare sulla Transnistria, una striscia nel Nord Est del Paese di circa mezzo milione di abitanti (secondo l’ultimo censimento, tenuto nel lontano 2004). Nel 1990, la Transnistria si autodichiarò unilateralmente indipendente con il nome di Repubblica Moldava di Pridniestrov ma è riconosciuta solamente dalla Federazione Russa. Nel 2014, dopo l’annessione della Crimea e le iniziative delle autoproclamate repubbliche di Dontesk e Luhansk nel Donbas, la Transnistria chiese l’annessione alla Russia. Poco meno di un terzo della popolazione è russofono.

Anche se Putin minimizza, la governatrice della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina ha ammesso, in una audizione parlamentare, che iniziano a colpire l’economia. Non certo quelle che comportano il sequestro di yacht, ville, immobili e conti in banca degli oligarchi, i quali hanno comunque poca voce in capitolo sulle scelte del Cremlino. Mordono quelle che hanno l’obiettivo di tagliare la Federazione Russa dal sistema bancario e finanziario internazionale. Morderebbero ancora di più se l’insieme dei Paesi occidentali applicassero con coerenza le medesime misure nei confronti dell’importazione di oli minerali (soprattutto gas) dalla Russia. Le esitazioni di alcuni (soprattutto della Repubblica Federale Tedesca) ne stanno indebolendo l’impatto.

Anche ove venissero applicate sistematicamente da tutte le parti in causa, è difficile, però, pensare che la sanzioni facciano tremare Putin e siano un’alternativa efficace a misure militari, dirette a rafforzare la resistenza Ucraina.

Dopo la Seconda guerra mondiale, sono state applicate sanzioni nei confronti del Sud Africa, Cuba, Venezuela, Corea del Nord, l’Iran, per non citare che i casi più noti. Difficile sostenere che le sanzioni siano state il veicolo che ha portato il cambiamento di sistema politico nella Repubblica del Sud Africa, dove già alla fine degli Anni Settanta –miei ultimi viaggi in quella parte del mondo –l’Apartheid era macera e decotta. Negli altri casi non hanno avuto effetti di rilievo.

Prima della Seconda guerra mondiale, di solito si ricordano le sanzioni applicate dalla Società delle Nazioni per l’aggressione all’Abissinia (nome con cui allora veniva chiamato l’Impero d’Etiopia). Più pertinenti sono le sanzioni poste dagli Stati Uniti nel 1941 nei confronti del Giappone (embargo alle esportazioni di oli minerali verso l’Impero Nipponico) e congelamento dei conti correnti e dei fondi di giapponesi investiti negli Usa; vennero concepite come alternativa alla belligeranza. Cinque mesi dopo la decretazione delle misure, alle prime luci dell’alba del 7 dicembre 1941, una flotta di portaerei della Marina imperiale giapponese attaccò la United States Pacific Fleet e le installazioni militari statunitensi di Pearl Harbor, sull’isola di Oahu, nell’arcipelago delle Hawaii. Difficile immaginare una maggiore belligeranza.

Non intendo certo sostenere che le sanzioni economiche sono inutili, ma che non bisogna fare affidamento sulla loro efficacia, soprattutto il coordinamento e l’applicazione sono laschi.

Avrebbero un maggiore effetto se fossero accompagnate da misure mirate all’isolamento della Federazione Russa, quale la sospensione, ove non l’espulsione, da varie organizzazioni internazionali della famiglia delle Nazioni Unite. Ma ciò è difficilmente concepibile dato il sistema di votazione all’Onu e nelle sue agenzie specializzate.

Possono avere qualche efficacia unicamente se accompagnate da aiuti diretti (invio di armi, finanziamenti) all’Ucraina, e se Mosca mostra di voler mettere le mani sulla Transnistria, alla Moldavia.



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