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Smart working, perché è superfluo un nuovo intervento normativo

Di Gabriele Fava

Gli strumenti per regolamentare il lavoro agile nella fase post-pandemica ci sono e un ulteriore intervento del legislatore in materia finirebbe soltanto per destabilizzare ulteriormente imprese e lavoratori. Il commento dell’avvocato Gabriele Fava, componente del Consiglio di presidenza della Corte dei Conti

Con il termine dello stato di emergenza sanitaria da Covid-19 si avvicina la fine di diverse misure emergenziali, tra cui il regime semplificato per accedere allo smart working. Ora, infatti, e sino al 30 giugno 2022, è possibile attivare unilateralmente il lavoro agile senza la necessità di un accordo tra datore di lavoro e lavoratore. Mentre dal 1° luglio si tornerà alla vecchia modalità, la quale, tuttavia, non è mai stata utilizzata su vasta scala nel periodo pre-pandemico.

Alcuni imputano questo scarso utilizzo dello smart working prima dell’avvento del Covid ad un inadeguato apparato normativo, e conseguentemente ritengono necessario un intervento del legislatore per creare un compromesso tra lo smart working tradizionale, ritenuto poco appetibile dalle imprese sino all’emergenza pandemica, e quello semplificato, a cui le imprese hanno fatto (anche per necessità) ampiamente ricorso, sperimentandone i positivi risvolti.

La necessità di una modifica normativa in questa direzione, tuttavia, non è condivisibile. L’effettiva utilità di una legge di tale portata, infatti, risulta oscura, soprattutto se si considera che già vi sono efficienti strumenti per regolamentare lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile.

La legge n. 81/2017 e il Protocollo nazionale sul lavoro agile – siglato dalle parti sociali il 7 dicembre scorso – paiono sufficienti e adeguati alle esigenze di imprese e lavoratori volte alla ripartenza del tessuto produttivo, economico e sociale. Il maggior utilizzo del lavoro agile nel periodo pandemico, infatti, non è imputabile a una debolezza normativa ma semplicemente alle esigenze di sicurezza del momento che, di riflesso, hanno temporaneamente modificato la struttura dell’istituto permettendone un’attivazione più semplice.

Al di là di questa parentesi, infatti, il lavoro agile nasce da una scelta libera e volontaria di datore di lavoro e lavoratore, frutto della trattativa tra gli stessi e volta a definire una serie di istituti connessi al concreto svolgimento della prestazione lavorativa da remoto. Imporre, sulla scia degli interventi normativi emergenziali, una nuova e diversa legge volta a disciplinare uniformemente il lavoro agile in tutti i settori, rischierebbe di far venire meno il presupposto della volontarietà su cui l’intera disciplina si fonda.

Sulla base di queste considerazioni, allora, l’unico spazio di manovra per modificare l’istituto del lavoro agile sarebbe demandato alla contrattazione collettiva (com’anche già riportato dal Protocollo sopra citato), la quale potrà fornire un supporto alla definizione del quadro regolatorio dello smart working nei singoli settori.

In conclusione, gli strumenti per regolamentare il lavoro agile nella fase post-pandemica ci sono e un ulteriore intervento del legislatore in materia finirebbe soltanto per destabilizzare ulteriormente imprese e lavoratori.

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