La guerra in Ucraina ha portato alla ribalta nuovi e vecchi attori della politica russa. Tra questi c’è l’ex premier che guarda al post Putin. L’analisi di Giovanni Savino, visiting professor all’Università di Parma
La guerra in Ucraina, con le sue atrocità e la stretta (probabilmente definitiva) sulla società russa, vede nuovi e vecchi attori dello scenario politico moscovita di nuovo alla ribalta. È il caso di Dmitry Medvedev, già presidente dal 2008 al 2012 e poi in seguito primo ministro, sostituito a inizio 2020 dall’attuale premier Mikhail Mishustin, e attualmente vicepresidente del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa. La stella del leader russo si era appannata nel corso degli otto anni trascorsi da presidente del Consiglio dei ministri, spesso al centro di polemiche e scandali, e la fine del suo mandato alla Casa Bianca (sede del governo russo) con la conseguente nomina al Consiglio di Sicurezza era sembrata un caso classico di promoveatur ut amoveatur, anche perché all’inizio del 2020 sembrava che questo organismo sarebbe diventato cruciale nella transizione apertasi (e al momento chiusasi) al Cremlino.
Durante gli anni trascorsi al Cremlino, si sprecavano titoli e articoli sulla stampa anche nostrana su Medvedev ora liberale, ora addirittura novello Mikhail Gorbaciov, sensazioni basate sull’allora giovane età del successore di Vladimir Putin, poco più che quarantenne, e su uno spazio garantito all’informazione indipendente e a posizioni non in linea con il Cremlino che oggi appaiono manifestazioni quasi oniriche. A contribuire a questa immagine “positiva” di Medvedev vi erano anche i toni e i gusti del presidente, ritenuto come più rispondente a un’immagine assai peculiare di Occidente perché ascoltava i Deep Purple e non i Liube, il gruppo preferito di Putin. In realtà si trattava di semplici differenze generazionali, Putin è del 1952, Medvedev del 1965. E quest’ultimo non si è mai mostrato arrendevole in politica estera, anzi: è l’allora nuovo volto del Cremlino a ordinare alle truppe russe, nell’agosto del 2008, di attaccare la Georgia, difendendo la repubblica secessionista dell’Ossezia meridionale, per poi riconoscerne l’indipendenza assieme all’Abkhazia, altra entità staccatasi da Tbilisi nella prima metà degli anni Novanta. Nonostante la guerra nel Caucaso, i rapporti internazionali della Russia di Medvedev furono all’insegna di un confronto aperto ma in fin dei conti sereno, con la firma di accordi come il New Start nel 2010.
Le ambizioni di un possibile secondo mandato, a cui i principali “polit-tekhnologi” (tecnologi della politica) di Medvedev, Vladislav Surkov e Gleb Pavlovsky, avevano iniziato a lavorare già dal 2010, si infransero di fronte alla volontà di Putin di tornare al Cremlino. Mikhail Zygar, giornalista e autore di vari bestseller sull’establishment russo, ha ricostruito nel suo “Vsya kremlevskaya rat’: kratkaya istoriya sovremennoy Rossii” (Tutta la compagnia del Cremlino: breve storia della Russia contemporanea) del 2015 il dialogo tra Putin e Medvedev nell’estate del 2011, con il primo che pose come principale argomento a favore del suo rientro alla presidenza cosa era avvenuto in Libia con la caduta di Muammar Gheddafi. Putin avrebbe detto al suo successore che il rischio era di perdere il Paese e che poi sarebbe tornato al Cremlino.
Gli anni da primo ministro di Medvedev sono stati contrassegnati dalle grosse difficoltà economiche dovute al crollo del prezzo di petrolio e gas, dalle sanzioni seguite al 2014, e dalle riforme sociali che hanno avuto come riflesso l’impopolarità del premier. Nel 2016, in occasione di una visita in Crimea, una donna anziana si lamentò con il primo ministro delle dimensioni alquanto modeste della propria pensione (8000 rubli, all’epoca poco più di 110 euro); Medvedev rispose con una frase diventata un meme: “Soldi non ce ne sono, ma resistete”. Due anni dopo la riforma delle pensioni, con l’allungamento dell’età lavorativa a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne, e la prevista incompatibilità fra assegno pensionistico e altro lavoro (pressoché la norma a causa delle somme spesso inadeguate), segnò definitivamente il nadir della popolarità del primo ministro, già nel mirino dell’opinione pubblica dopo l’uscita del documentario di Alexey Navalny nel 2017 “On vam ne Dimon” (Non chiamatelo Dimon), dove si collegavano atti di corruzione e varie proprietà immobiliari, tra cui una tenuta in Toscana, a Medvedev.
La guerra in Ucraina sembrerebbe fornire all’ex premier una nuova possibilità. Sin dai primi giorni, Medvedev si è mostrato tra i principali sostenitori della cosiddetta operazione speciale, utilizzando Twitter e Telegram per esprimere opinioni fin troppo estreme: dalla sospensione della moratoria sulla pena di morte a minacce nemmeno troppo velate a Finlandia e Svezia in caso di adesione alla Nato. Medvedev spesso utilizza i toni del trolling, come il 22 aprile, quando ha risposto alle previsioni della Commissione europea e del Fondo monetario sulle riserve di gas scrivendo che l’Unione europea non resisterebbe nemmeno poche settimane senza gli idrocarburi russi. Qualche giorno prima, il 16 aprile, commentando la notizia rivelatasi poi insussistente sulla possibilità di attacco ai satelliti Starlink da parte di Mosca, ha ringraziato per la nuova idea fornita dai media occidentali. Probabilmente, dietro a questo rinnovato attivismo, c’è la speranza dell’ex premier di tornare alla ribalta con un ruolo ancor più visibile, e forse di poter porsi, in futuro, in prima linea in occasione della riapertura della transizione. Ma Medvedev non è solo in questa gara, e gli altri concorrenti non perdono occasione per darsi da fare, come il presidente della Duma Vyacheslav Volodin.