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Il voto postale vale come il Reddito di cittadinanza. Scrive Giordano

Le proposte presentate nel libro bianco “Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e favorire il voto” possono in prospettiva far guadagnare alla ragioneria della partecipazione elettorale qualche punto percentuale, ma nulla di più. Domenico Giordano (Arcadia) spiega perché

“Il voto per posta”, scrive Federico D’Incà su Twitter e Facebook con un pizzico di entusiasmo da padre costituente del terzo Millennio, “per curare la democrazia malata di astensionismo”. In un post pubblicato sabato scorso per rilanciare sui suoi canali social l’intervista a Repubblica, il ministro per i Rapporti con il Parlamento si sofferma in particolare su una delle proposte elaborate dalla Commissione di esperti, istituita a dicembre dello scorso anno, per studiare le cause della crescente disaffezione alle urne e favorire una nuova partecipazione dei cittadini al voto.

In verità la Commissione presieduta da Franco Bassanini ha elaborato un pacchetto più ampio di idee operative tra le quali la “concentrazione delle scadenze elettorali in due soli appuntamenti annuali, il voto anche in seggi diversi dal proprio, la digitalizzazione della tessera e delle liste elettorali (election pass) e l’individuazione di sedi alternative agli edifici scolastici al fine di ospitare i seggi elettorali”.

 

Dunque, per il ministro l’innovazione del voto postale dovrebbe terapeuticamente recuperare l’allontanamento patologico degli italiani dalle urne, un trend negativo che mina il fondamento della rappresentanza popolare, pietra angolare delle liberal democrazie contemporanee. In Italia, dal 1994 al 2018, in occasione delle elezioni politiche il tasso di partecipazione è sceso di oltre 13 punti percentuali, passando dall’86,31% al 72,94%, una situazione che peggiora drasticamente volgendo lo sguardo alle elezioni amministrative. In queste elezioni, la soglia di cittadini che si reca ai seggi supera a fatica il 50% e nei turni di ballottaggio scende abbondantemente sotto.

Solo che la soluzione annunciata da D’Incà rischia di essere un palliativo o poco più, un osso da lanciare al cane che non servirà a sfamarlo. Un provvedimento che se diventasse legge molto probabilmente non porterà più italiani alle urne, al più finirà per buttare un po’ di fumo negli occhi dell’antipolitica, come del resto è già successo con il Reddito di cittadinanza, che non ha eliminato la povertà, né aiutato a ridurre la disoccupazione in Campania, Sicilia o Puglia, che risultano tra le prime quattro regioni con il più alto numero di percettori di reddito.

Del resto, leggendo la maggior parte dei commenti ai post del ministro, era evidente la larghissima convergenza dei cittadini a giustificare la scelta di affrancarsi dal diritto-dovere delle urne come una conseguenza dalle incrostazioni di sfiducia nei confronti della classe politica e non legata alle modalità, di tempo e di luogo, di esercizio del voto.

Una sfiducia dilagante a prescindere dal ruolo al quale ci si candida, parlamentare o sindaco, consigliere regionale o comunale, e fondata sulla convinzione che i partiti sono entità vuote e senza alcuna reale rappresentanza e che la capacità di potere, intesa come idoneità e abilità a realizzare le promesse, della politica è ridotta o circoscritta all’ordinarietà.

“Che voto a fare, tanto non cambia mai nulla” è il mantra che da Pordenone a Siracusa fa crescere le metastasi nel corpo elettorale. E, a queste due condizioni portanti, ovviamente se ne aggiungono altre che la cattiva politica da un lato (con le classi dirigenti senza una idonea formazione rispetto alla complessità dei problemi e una pluralità di sistemi elettorali che non aiutano la selezione ma premiano la fedeltà al leader), e l’antipolitica dall’altro, hanno contribuito nell’ultimo ventennio a far crescere a dismisura il baratro tra cittadini, istituzioni e fiducia.

Certo le proposte presentate nel libro bianco Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e favorire il voto possono in prospettiva far guadagnare alla ragioneria della partecipazione elettorale qualche punto percentuale, ma nulla di più, perché è necessario lavorare sul lungo periodo sulla qualità della nostra democrazia a partire dall’accountability delle classi politiche.

Se non facciamo questo avrà sempre gioco facile l’anti-politica di stagione pronta a ricordarci come – fonte Open Polis – dal 2018 a oggi i cambi di casacca dei parlamentari in totale sono stati 311, per una media di circa 6,5 al mese. Alla camera i deputati coinvolti sono stati 144 per un totale di 191 cambi di gruppo. A palazzo Madama invece i riposizionamenti totali sono stati 119 e hanno visto protagonisti 72 senatori.


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