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Le implicazioni dell’imminente aumento dei tassi Usa

Dopo circa dodici anni di politica monetaria accomodante per non dire esplicitamente espansionista, caratterizzata da strumenti e misure non convenzionali, di cui la più nota è il Quantitative Easing, si passerà a una politica monetaria restrittiva. Il commento di Giuseppe Pennisi

Oggi, 3 maggio, e domani, 4 maggio, si riunisce il Federal Reserve Board, l’autorità monetaria degli Stati Uniti. Come già anticipato su questa testata, la spinta inflazionistica in corso negli Usa farà sì che questa riunione segnerà la svolta: dopo circa dodici anni di politica monetaria accomodante per non dire esplicitamente espansionista, caratterizzata da strumenti e misure non convenzionali, di cui la più nota è il Quantitative Easing, si passerà ad una politica monetaria restrittiva, che porterebbe ad un aumento dei tassi d’interesse di due punti percentuali entro la fine del 2022 e anche a misure non convenzionali di segno opposto al Quantitative Easing, ossia un Quantitative Tightening di cui abbiamo illustrato le caratteristiche tecniche su questa testata.

Ora che i giochi sono fatti (o quasi – si sapranno i dettagli quando tra due mesi verrà pubblicato il verbale della riunione), occupiamoci delle possibili implicazioni. A livello interno, americano, potrà rallentare l’inflazione mandando un segnale forte; attenzione, però questa volta (soprattutto da quando è in corso l’aggressione della Federazione Russa nei confronti dell’Ucraina) le determinanti della vampata inflazionistica non sono solo o principalmente da domanda ma da interruzione dei canali tradizionali dell’offerta e da aumento dei costi (materie prime, principalmente del settore energia). Su queste determinanti i freni monetari agiscono debolmente. Le misure monetarie operano soprattutto sulle aspettative inflazionistiche; se riescono a fermare, o meglio ancora, a far fare un passo indietro, a quelle americane, ci sarebbero vantaggi per tutti dato che, di rimbalzo, agirebbero sul resto del mondo, soprattutto sull’Europa.

Quando l’America starnuta, però, gli altri si prendono la bronchite. In questo caso, l’aumento dei tassi potrebbe portare la bronchite agli stessi Usa. Lo illustra efficacemente un editoriale ben articolato ben argomentato di Guido Salerno Aletta su Teleborsa del 2 maggio: l’aumento dei tassi spingerà capitali europei ed asiatici verso gli Usa in cerca di maggiori remunerazioni, provocando un apprezzamento del dollaro e quindi un incremento del disavanzo (già enorme) della bilancia commerciale Usa. Vorremo aggiungere che questo effetto può essere mitigato da una svolta della politica monetaria europea (fine del Quantitative Easing nelle sue varie vesti), ma se tale svolta comporta il ritocco dei tassi saranno guai seri per i Paesi più fortemente indebitati (come l’Italia).

Ma, come abbiamo già accennato, il pericolo maggiore lo corrono i Paesi in via di sviluppo. Sulla base dei documenti pubblicati in occasione delle consuete riunioni primaverili della Banca Mondiale e del Fondo Monetario, l’effetto congiunto di aumento dei tassi e di balzo dei costi dell’energia e dei prodotti alimentari (due elementi strettamente correlati con l’invasione dell’Ucraina) può innescare il Great Default, insolvenza di massa su prestiti internazionali.

Secondo la Banca Mondiale, su una settantina di Paesi in via di sviluppo almeno il 10% ha un debito insostenibile e non può pagare interessi ed ammortamenti. Il 50% è su questa strada e un aumento dei tassi le porterebbe all’insolvenza. Sri Lanka che il 12 aprile ha dichiarato di non poter più fare fronte ai propri impegni è stato unicamente il primo di una lunga lista di Paesi di cui si teme il default. La situazione, però, si dice a Washington, è meno grave (per i Paesi in via di sviluppo) di quella che ha caratterizzato gli anni Ottanta del secolo scorso soprattutto perché i Paesi a reddito intermedio hanno appreso costruirsi riserve di valuta estera e le banche internazionali a fare prestiti con maggior cautela: ora in questi Paesi, il debito delle Pubbliche amministrazioni sul mercato interno è pari al 17% delle riserve bancarie invece del 13% di dieci anni fa – sempre molto di più del 7,5% che è la media dei Paesi Ocse.

Ma c’è un’altra minaccia dietro l’angolo. La contrazione del commercio mondiale che rischia di essere aggravata dall’aumento dei tassi: tra il 1960 e il 1980, il commercio mondiale in proporzione al Pil mondiale è passato dal 9% al 18%, diventando un importante motore di sviluppo; dalla fine del Novecento ha ristagnato o quasi; nel 2021 ha segnato una contrazione del 19% rispetto ai livelli raggiunti nel 2019. Le prospettive di una ripresa non sono buone anche a ragione dei problemi della Cina – dall’inizio del secolo un elemento dinamico dell’economia e del commercio mondiale e che secondo le stesse statistiche di Pechino, quest’anno avrà, nella migliore delle ipotesi, un tasso di crescita del 5%.

Le prospettive non sono buone. Il Fondo monetario stima che a ragione del più alto costo del denaro e dei mancati investimenti in infrastrutture e in capitale umano, senza contare gli effetti della guerra in Ucraina, alla fine del 2024 i Paesi in via di sviluppo avranno mediamente un Pil del 5% inferiore a quello del 2019 e i Paesi Ocse inferiore dell’1%.


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